Udienza generale. Il Papa: nella notte del dolore non dimentichiamo che Dio è sempre
vicino
Il Papa, durante l’udienza generale di oggi, ha proseguito le sue catechesi sulla
preghiera commentando il Salmo 126, “un Salmo dalle note festose, una preghiera che,
nella gioia, canta le meraviglie di Dio” e “che celebra le grandi cose che il Signore
ha operato con il suo popolo e che continuamente opera con ogni credente”.
“Il
Salmista, a nome di tutto Israele – ha detto il Pontefice - inizia la sua preghiera
ricordando l’esperienza esaltante della salvezza: «Quando il Signore ristabilì
la sorte di Sion, ci sembrava di sognare. Allora la nostra bocca si riempì
di sorriso, la nostra lingua di gioia» (vv. 1-2a). Il Salmo parla di una “sorte
ristabilita”, cioè restituita allo stato originario, in tutta la sua precedente positività.
Si parte, cioè, da una situazione di sofferenza e di bisogno a cui Dio risponde operando
salvezza e riportando l’orante alla condizione di prima, anzi arricchita e cambiata
in meglio. È quello che avviene a Giobbe, quando il Signore gli ridona tutto quanto
aveva perduto, raddoppiandolo ed elargendo una benedizione ancora maggiore (cfr Gb
42,10-13), ed è quanto sperimenta il popolo d’Israele ritornando in patria dall’esilio
babilonese. E’ proprio in riferimento alla fine della deportazione in terra straniera
che viene interpretato questo Salmo: l’espressione “ristabilire la sorte di Sion”
è letta e compresa dalla tradizione come un “far tornare i prigionieri di Sion”. In
effetti, il ritorno dall’esilio è paradigma di ogni intervento divino di salvezza
perché la caduta di Gerusalemme e la deportazione a Babilonia sono state un’esperienza
devastante per il popolo eletto, non solo sul piano politico e sociale, ma anche e
soprattutto sul piano religioso e spirituale. La perdita della terra, la fine della
monarchia davidica e la distruzione del Tempio appaiono come una smentita delle promesse
divine, e il popolo dell’alleanza, disperso tra i pagani, si interroga dolorosamente
su un Dio che sembra averlo abbandonato. Perciò, la fine della deportazione e il ritorno
in patria sono sperimentati come un meraviglioso ritorno alla fede, alla fiducia,
alla comunione con il Signore; è un “ristabilimento della sorte” che implica anche
conversione del cuore, perdono, ritrovata amicizia con Dio, consapevolezza della sua
misericordia e rinnovata possibilità di lodarLo (cfr Ger 29,12-14; 30,18-20; 33,6-11;
Ez 39,25-29). Si tratta di un’esperienza di gioia straripante, di sorrisi e grida
di giubilo, talmente bella che “sembra di sognare”. Gli interventi divini hanno spesso
forme inaspettate, che vanno al di là di quanto l’uomo possa immaginare; ecco allora
la meraviglia e la letizia che si esprimono nella lode: “Il Signore ha fatto grandi
cose”. È quanto dicono le nazioni, ed è quanto proclama Israele: «Allora si diceva
tra le genti: “Il Signore ha fatto grandi cose per con loro”. Grandi
cose ha fatto il Signore per noi: eravamo pieni di gioia» (vv. 2b-3). Dio fa
meraviglie nella storia degli uomini. Operando la salvezza, si rivela a tutti come
Signore potente e misericordioso, rifugio dell’oppresso, che non dimentica il grido
dei poveri (cfr Sal 9,10.13), che ama la giustizia e il diritto e del cui amore è
piena la terra (cfr Sal 33,5). Perciò, davanti alla liberazione del popolo di Israele,
tutte le genti riconoscono le cose grandi e stupende che Dio compie per il suo popolo
e celebrano il Signore nella sua realtà di Salvatore. E Israele fa eco alla proclamazione
delle nazioni, e la riprende ripetendola, ma da protagonista, come diretto destinatario
dell’azione divina: «Grandi cose ha fatto il Signore per noi»; “per noi”, o ancor
più precisamente, “con noi”, in ebraico ‘immanû, affermando così quel rapporto privilegiato
che il Signore intrattiene con i suoi eletti e che troverà nel nome Immanuel, “Dio
con noi”, con cui viene chiamato Gesù, il suo culmine e la sua piena manifestazione
(cfr Mt 1,23)”.
Il Papa ha quindi sottolineato che “nella nostra preghiera
dovremmo guardare più spesso a come, nelle vicende della nostra vita, il Signore ci
ha protetti, guidati, aiutati e lodarlo per quanto ha fatto e fa per noi”. “Dobbiamo
essere più attenti alle cose buone che il Signore ci dà – ha proseguito a braccio
il Papa - Siamo sempre attenti ai problemi, alle difficoltà e quasi non vogliamo percepire
che ci sono cose belle che vengono dal Signore. Questa attenzione che diventa gratitudine
è molto importante per noi e ci crea una memoria del bene che ci aiuta anche nelle
ore buie”. “Dio – ha aggiunto - compie cose grandi, e chi ne fa esperienza è … ricolmo
di gioia. Su questa nota festosa si conclude la prima parte del Salmo. Essere salvati
e tornare in patria dall’esilio è come essere ritornati alla vita: la liberazione
apre al sorriso, ma insieme all’attesa di un compimento ancora da desiderare e da
domandare”. Il Papa ha poi è passato alla seconda parte del Salmo: «Ristabilisci,
Signore, la nostra sorte, come i torrenti del Negheb. Chi semina nelle lacrime
mieterà nella gioia. Nell’andare, se ne va piangendo, portando la semente
da gettare, ma nel tornare, viene con gioia, portando i suoi covoni» (vv.
4-6). “Se all’inizio della sua preghiera – ha affermato - il Salmista celebrava
la gioia di una sorte ormai ristabilita dal Signore, ora invece la chiede come qualcosa
ancora da realizzare. Se si applica questo Salmo al ritorno dall’esilio, questa apparente
contraddizione si spiegherebbe con l’esperienza storica, fatta da Israele, di un ritorno
in patria difficile, solo parziale, che induce l’orante a sollecitare un ulteriore
intervento divino per portare a pienezza la restaurazione del popolo.
Ma il
Salmo va oltre il dato puramente storico per aprirsi a dimensioni più ampie, di tipo
teologico. L’esperienza consolante della liberazione da Babilonia è comunque ancora
incompiuta, “già” avvenuta, ma “non ancora” contrassegnata dalla definitiva pienezza.
Così, mentre nella gioia celebra la salvezza ricevuta, la preghiera si apre all’attesa
della realizzazione piena. Per questo il Salmo utilizza immagini particolari, che,
con la loro complessità, rimandano alla realtà misteriosa della redenzione, in cui
si intrecciano dono ricevuto e ancora da attendere, vita e morte, gioia sognante e
lacrime penose. La prima immagine fa riferimento ai torrenti secchi del deserto del
Neghev, che con le piogge si riempiono di acqua impetuosa che ridà vita al terreno
inaridito e lo fa rifiorire. La richiesta del Salmista è dunque che il ristabilimento
della sorte del popolo e il ritorno dall’esilio siano come quell’acqua, travolgente
e inarrestabile, e capace di trasformare il deserto in una immensa distesa di erba
verde e di fiori.
La seconda immagine si sposta dalle colline aride e rocciose
del Neghev ai campi che i contadini coltivano per trarne il cibo. Per parlare della
salvezza, si richiama qui l’esperienza che ogni anno si rinnova nel mondo agricolo:
il momento difficile e faticoso della semina e poi la gioia prorompente del raccolto.
Una semina che è accompagnata dalle lacrime, perché si getta ciò che potrebbe ancora
diventare pane, esponendosi a un’attesa piena di incertezze: il contadino lavora,
prepara il terreno, sparge il seme, ma – ha detto il Papa - non sa dove questo seme
cadrà, se gli uccelli lo mangeranno, se attecchirà, se metterà radici, se diventerà
spiga (cfr Mt 13,3-9; Mc 4,2-9; Lc 8,4-8). Gettare il seme è un gesto di fiducia e
di speranza; è necessaria l’operosità dell’uomo, ma poi si deve entrare in un’attesa
impotente, ben sapendo che molti fattori saranno determinanti per il buon esito del
raccolto e che il rischio di un fallimento è sempre in agguato. Eppure, anno dopo
anno, il contadino ripete il suo gesto e getta il suo seme. E quando questo diventa
spiga, e i campi si riempiono di messi, ecco la gioia di chi è davanti a un prodigio
straordinario. Gesù conosceva bene questa esperienza e ne parlava con i suoi: «Diceva:
“Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli,
di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo
sa» (Mc 4,26-27). È il mistero nascosto della vita, sono le meravigliose “grandi cose”
della salvezza che il Signore opera nella storia degli uomini e di cui gli uomini
ignorano il segreto. L’intervento divino, quando si manifesta in pienezza, mostra
una dimensione prorompente, come i torrenti del Neghev e come il grano nei campi,
evocatore quest’ultimo anche di una sproporzione tipica delle cose di Dio: sproporzione
tra la fatica della semina e l’immensa gioia del raccolto, tra l’ansia dell’attesa
e la rasserenante visione dei granai ricolmi, tra i piccoli semi gettati a terra e
i grandi cumuli di covoni dorati dal sole. Alla mietitura, tutto è trasformato, il
pianto è finito, ha lasciato il posto a grida di gioia esultante.
A tutto questo
fa riferimento il Salmista per parlare della salvezza, della liberazione, del ristabilimento
della sorte, del ritorno dall’esilio. La deportazione a Babilonia, come ogni altra
situazione di sofferenza e di crisi, con il suo buio doloroso fatto di dubbi e di
apparente lontananza di Dio, in realtà, dice il nostro Salmo, è come una semina. Nel
Mistero di Cristo, alla luce del Nuovo Testamento, il messaggio si fa ancora più esplicito
e chiaro: il credente che attraversa quel buio è come il chicco di grano caduto in
terra che muore, ma per dare molto frutto (cfr Gv 12,24); oppure, riprendendo un’altra
immagine cara a Gesù, è come la donna che soffre nelle doglie del parto per poter
giungere alla gioia di aver dato alla luce una nuova vita (cfr Gv 16,21). Cari
fratelli e sorelle, questo Salmo ci insegna che, nella nostra preghiera, dobbiamo
rimanere sempre aperti alla speranza e saldi nella fede in Dio. La nostra storia,
anche se segnata spesso da dolore, da incertezze, da momenti di crisi, è una storia
di salvezza e di “ristabilimento delle sorti”. In Gesù, ogni nostro esilio finisce,
e ogni lacrima è asciugata, nel mistero della sua Croce, della morte trasformata in
vita, come il chicco di grano che si spezza nella terra e diventa spiga”. “Anche da
noi – ha concluso il Papa a braccio - questa scoperta di Gesù Cristo è la grande gioia
del Sì di Dio, del ristabilimento della nostra sorte. Ma quelli ritornati da Babilonia
pieni di gioia hanno ritrovato una terra impoverita, devastata, la difficoltà della
seminagione” e solo nella sofferenza “alla fine ci sarà la raccolta: così anche noi,
dopo la grande scoperta di Gesù Cristo, nostra vita e verità”, entrando “nella terra
della fede, troviamo anche spesso una vita buia, dura, difficile, una seminagione
con lacrime, ma sicuri che la luce di Cristo ci dà alla fine realmente la grande raccolta.
E questo – ha proseguito - dobbiamo imparare anche nelle notti buie, non dimenticare
che la luce c’è, che Dio è già in mezzo alla nostra vita e che possiamo seminare nella
grande fiducia che il Sì di Dio è più forte di tutti noi”. L’importante – ha sottolineato
- è non perdere “questo ricordo della presenza di Dio nella nostra vita, questa gioia
profonda che è entrato Dio” ringraziandolo “per la scoperta di Gesù Cristo che è venuto
da noi e questa gratitudine si trasforma in speranza”, una “speranza che ci dà la
fiducia” e alla fine “proprio il dolore della seminagione” è “l’inizio della nuova
vita della grande definitiva gioia di Dio”.