Indice globale sulla fame nel mondo in calo, ma non con tendenze uniformi
L’indice globale sulla fame nel mondo è diminuito negli ultimi 21 anni, ma di poco
e non in maniera uniforme. In cinque Stati africani (Burundi, Comore, Costa d’Avorio,
Repubblica Democratica del Congo, Swaziland) e in uno asiatico (Corea del nord) la
situazione è addirittura peggiorata. La Repubblica Democratica del Congo è il Paese
dove si soffre maggiormente la fame. Seguono, in questa drammatica classifica, Burundi
ed Eritrea. E’ quanto emerge dallo studio intitolato “Global hunger index” (Indice
globale della fame), pubblicato in Italia da “Link 2007”, il consorzio che raggruppa
dieci fra le più importanti Organizzazioni non governative, in collaborazione con
Cesvi (Cooperazione e sviluppo) e Cosv (Coordinamento delle Organizzazioni per il
Servizio Volontario). La ricerca, presentata ieri a Milano nella sede dell’Ispi (Istituto
per gli studi di politica internazionale), prende in esame tre indicatori: la percentuale
di persone denutrite, la percentuale di bambini fino a 5 anni sottopeso ed il tasso
di mortalità infantile. L’indice, ricavato in base a questi indicatori, può variare
da 0 a 100. Un livello moderato o basso corrisponde ad un indice inferiore a 10. Tale
indice è sceso da 19,7 nel 1990 a 14,6 nel 2011. Ma sono 26 i Paesi – ricorda il Sir
– che presentano ancora livelli estremamente allarmanti. Si precisa anche che lo studio
sulla fame nel mondo è parziale. Il rapporto, infatti, non comprende i dati relativi
alle drammatiche conseguenze della grave siccità che ha colpito, in questi mesi, tutto
il Corno d'Africa e in particolare Somalia, Kenya, Etiopia, Gibuti, Sudan e la nuova
Repubblica del Sud Sudan. La ricerca prende in esame, in particolare, l’impatto negativo
che i prezzi alimentari hanno sulla vita quotidiana degli agricoltori. “L’aumento
e la volatilità dei prezzi - ha spiegato il curatore dell’edizione italiana del rapporto,
Stefano Piziali - dipendono soprattutto dalla crescita dell'uso di colture per biocarburanti,
dalla speculazione con la crescita del volume degli scambi dei ‘futures’ delle materie
prime e dai cambiamenti climatici”. “Se i prezzi alti sono buoni o cattivi a seconda
dei Paesi sotto esame – ha aggiunto Francesco Daveri, economista dell'Università di
Parma - sicuramente la variabilità degli stessi è cattiva per tutti”. Decenni di progressi
nella lotta alla fame, si sottolinea nel rapporto, rischiano di essere vanificati
se i prezzi continueranno ad essere instabili. (A cura di Amedeo Lomonaco)