In Egitto, celebrati i funerali di alcuni dei cristiani morti negli scontri con l'esercito
Si temono nuove violenze in Egitto dopo gli scontri, domenica scorsa tra esercito
e cristiani copti, che hanno provocato la morte di almeno 36 persone. Il segretario
generale dell’Onu, Ban Ki-moon, ha rivolto un appello al popolo egiziano affinché
rimanga unito in questa delicata fase di transizione dopo la caduta del regime di
Mubarak. Ma perché il Paese continua ad essere scosso da forti tensioni? Fabio
Colagrande lo ha chiesto ad Enrico Casale, africanista della Rivista dei
Gesuiti Popoli:
R. – Non
so a chi interessi, ma so chi, in questo momento, ne trae vantaggio, e probabilmente
è la giunta militare al potere, perché dal “divide et impera” riesce a trovare una
giustificazione per la sua permanenza al potere: mettendo contro la comunità cristiana
e la comunità musulmana più integralista si pone come arbitro, e quindi giustifica
il suo essere al potere.
D. – Ma possiamo parlare di rischi di uno scontro
interreligioso?
R. – Gli scontri che sono avvenuti l’altro ieri al Cairo
non hanno visto contrapposti i cristiani ai musulmani, perché all’interno delle file
dei cristiani esisteva anche un grosso gruppo di esponenti di un islam moderato, che
si sente, anch’esso, schiacciato dal sorgere di questo islamismo più radicale, più
integralista, che sta tentando di affermarsi anche in parte con la complicità del
governo egiziano.
D. – Esiste un vero pericolo islamista in Egitto?
R.
– Esiste, nel senso che se il governo continuerà a lasciare mano libera a queste frange
estremiste, queste potrebbero prendere il sopravvento e schiacciare le altre componenti
della società. La palla in questo momento è in mano al governo. Si vedrà che cosa
vorrà fare il governo nelle prossime settimane e nei prossimi mesi: se vorrà continuare
a soffiare sul fuoco oppure stemperare le tensioni attualmente in atto. (ap)
Restiamo
in Egitto, dove ieri sera oltre 20 mila persone hanno partecipato, nella cattedrale
copta del Cairo, ai funerali di alcune delle vittime della dura repressione, da parte
dell’esercito, della pacifica protesta di cristiani contro l’ennesimo attacco di una
chiesa copta nel sud del Paese. Le violenze sono espressione della divisione e dell’odio
presenti nella società. E’ quanto sottolinea al microfono di Amedeo Lomonaco
il missionario comboniano padre Luciano Verdoscia, da oltre 20 anni al Cairo:
R. - L’odio
è stato sempre presente, anche se in passato spesso veniva camuffato: ufficialmente
si diceva che tutto andava bene e che c’erano degli ottimi rapporti. Forse a livello
politico c’erano degli ottimi rapporti tra la Chiesa e il governo, ma le divisioni
sono lì: la gente, non avendo istruzione necessaria e essendo povera, l’unica identità
che si ritrova è quella religiosa. Se questa identità religiosa viene strumentalizzata
dalle ideologie presenti in Medio Oriente, è chiaro che poi gli effetti sono devastanti.
D. - Tra le cause ha indicato questa strategia dell’odio e anche la
strumentalizzazione della religione. Il premier egiziano ha detto che nel Paese non
si sta verificando solo uno scontro tra musulmani e cristiani ma, piuttosto, un tentativo
di provocare il caos…
R. - Può darsi. Io non voglio escludere che ci
sia un tentativo di destabilizzare il Paese. Forse un tentativo del vecchio regime,
forse per dire: “Ecco, voi avete distrutto un regime e questo è ciò che vi ritrovate”.
Forse, però, è anche vero che c’è una cultura all’interno delle masse incitata da
gruppi ideologici, religiosi, una cultura che deve essere combattuta. Democrazia non
significa dare la possibilità a tutti di dire quello che vogliono quando “quello che
vogliono” significa incitare alla violenza, incitare alla discriminazione, incitare
all’odio, questo rappresenta un reato.
D. – Bisogna dunque agire a livello
culturale. C’è un appello che vuole lanciare agli imam in questo momento così difficile
per l’Egitto, affinché prevalga sempre il rispetto delle minoranze…
R.
- Posso solamente augurare che si costruisca un clima di tolleranza e di pace. Questo
viene fatto, però, col rispetto dell’altro. L’appello lo fare piuttosto ai politici
dell’Occidente, che sono chiamati a prendere una posizione e, nello stesso tempo,
invitare anche gli altri a creare un clima di pace. Però questo noi lo possiamo fare
se abbiamo un’etica. Ma se l’etica non l’abbiamo con quale autorità parliamo?
D.
- L’insicurezza, dopo la caduta del regime di Mubarak, e anche il rafforzamento di
posizioni sempre più integraliste, alla vigilia delle elezioni di novembre, hanno
spinto molti cristiani a lasciare il Paese. Come si ferma questa emorragia?
R.
- Secondo me, bisogna lavorare nel Paese. Se noi sappiamo che dobbiamo vivere una
nostra missione nel mondo, naturalmente bisogna molto lavorare. Uno dei modi che ho
scelto per essere presente è quello di lavorare per l’istruzione: all’interno dei
quartieri poveri con i bambini provenienti da famiglie molto bisognose. E questo proprio
perché, attraverso l’istruzione, pian piano si può creare una coscienza critica per
affrontare la vita. (mg)