La morte di Steve Jobs. Padre Spadaro: ha reso la tecnologia parte integrante della
nostra vita quotidiana
Un genio del nostro tempo: all’età di 56 anni è morto, nella notte, Steve Jobs, alfiere
dell’era digitale, fondatore della Apple, inventore del computer Macintosh,
dell’Ipad e dell’Iphone. Jobs combatteva da 7 anni contro una rara forma
di tumore al pancreas. Milioni di persone in tutto il mondo stanno lasciando messaggi
di commiato per ricordare quello che il presidente americano, Barack Obama, ha definito
un “visionario che ha trasformato le nostre vite”. Sul contributo più significativo
e duraturo che Steve Jobs lascia al nostro tempo, Alessandro Gisotti ha intervistato
padre Antonio Spadaro, direttore di “Civiltà Cattolica” ed esperto di nuove
tecnologie della comunicazione:
R. – Il
contributo maggiore che Steve Jobs ha fornito è il fatto che la tecnologia, per lui,
è parte della vita. Quindi, direi che è il significato del suo lavoro ciò che colpisce.
La tecnologia non è qualcosa riservata a tecnici: la sua passione per l’interfaccia
grafica, per il design significa che gli strumenti, le cose, gli oggetti hanno una
vocazione a integrarsi con la nostra vita di tutti i giorni. Penso sia questo uno
dei maggiori contributi di Steve Jobs alla comprensione della tecnologia nel mondo
moderno.
D. – La “Apple” fondata da Steve Jobs ha oggi un fatturato
maggiore del gigante petrolifero ExxonMobil. Si può dire che nell’era della globalizzazione
il bit vale più del petrolio?
R. – Direi certamente di sì, e farei un
passo indietro. L’11 febbraio 1929, con i Patti Lateranensi nasce lo Stato della Città
del Vaticano: Pio XI da quel momento comprese che l’essenziale per quello Stato erano
la Radio e Stazione ferroviaria, cioè la comunicazione. Steve Jobs, in questo senso,
aveva qualcosa in comune con Pio XI, cioè ha compreso che la comunicazione è il valore
maggiore che noi oggi abbiamo a disposizione e dobbiamo far fruttare. In lui direi
che si è unita una capacità innovativa e una grande capacità creativa.
D.
– Steve Jobs che fu adottato da piccolo e non si è mai laureato, dimostra la possibilità
del genio umano anche in situazioni difficili, perlomeno di partenza. D’altro canto,
il suo ingegno si è alimentato in un sistema come quello americano. Si riuscirà mai
a colmare il “digital divide” dei Paesi in via di sviluppo? Insomma, si potrà mai
avere uno Steve Jobs in Africa?
R. – E’ chiaro che il contesto è molto
importante. Io direi che il “digital divide” non sarà mai colmato pienamente, cioè
rimarranno sempre differenze, anche all’interno di nazioni sviluppate: non tutti godranno
delle stesse possibilità. Però, certamente, lo sviluppo servirà parecchio ai Paesi
meno industrializzati che a volte già stupiscono. Per esempio, se guardiamo alla capacità
tecnica, alle infrastrutture tecniche, per esempio nella velocità delle connessioni
Internet, troviamo dei Paesi che sono in via di sviluppo che hanno ed esprimono capacità
addirittura più elevate rispetto a Paesi di più ampia industrializzazione.
D.
– Si parla molto, in questi anni, di declino degli Stati Uniti, e tuttavia se pensiamo
a coloro che hanno cambiato, recentemente, le nostre abitudini, perfino il nostro
linguaggio, il pensiero va appunto a Steve Jobs, a Bill Gates, a Mark Zuckerberg,
tutti americani – peraltro, tutti giovani quando hanno inventato le loro prime “creature”.
Quale riflessione si può fare, al riguardo?
R. – Le persone che lei
ha nominato sono tutte persone che, in un modo o in un altro, hanno accettato una
sfida; il secondo aspetto è la grande capacità di credere in visioni, di vedere la
vita non solo in termini di piccolo quotidiano, ma di avere visioni davanti. In fondo,
il messaggio più importante di Steve Jobs è proprio questo: “Stay hungry, stay foolish”
– rimani affamato, rimani folle, abbi la capacità di vedere la vita in termini nuovi.
D.
– Questo, verrebbe da dire, è molto americano …
R. – Questo, direi,
è molto umano. Chiaramente, anche per motivi economici, storici – lo vediamo anche
dalla letteratura – gli Stati Uniti hanno avuto sempre il concetto di frontiera davanti
a sé. Il concetto di frontiera e di limite da varcare è sempre stato presente, e questo
– evidentemente – li ha portati anche sulla luna. E allora, direi che questa tensione
al limite e al superamento di una condizione di staticità, di adeguamento all’esistente,
questo è molto importante ed è, per noi, da imparare. (gf)