Lunghi applausi per Benedetto XVI al Parlamento federale tedesco
Storico discorso del Papa al Bundestag, il Parlamento federale tedesco, che ha accolto
le parole di Benedetto XVI con un un lunghissimo applauso. Ecco di seguito il testo
integrale del discorso di Benedetto XVI:
Illustre Signor Presidente Federale! Signor
Presidente del Bundestag! Signora Cancelliere Federale! Signor Presidente del
Bundesrat! Signore e Signori Deputati! È per me un onore e una gioia parlare
davanti a questa Camera alta – davanti al Parlamento della mia Patria tedesca, che
si riunisce qui come rappresentanza del popolo, eletta democraticamente, per lavorare
per il bene della Repubblica Federale della Germania. Vorrei ringraziare il Signor
Presidente del Bundestag per il suo invito a tenere questo discorso, così come per
le gentili parole di benvenuto e di apprezzamento con cui mi ha accolto. In questa
ora mi rivolgo a Voi, stimati Signori e Signore – certamente anche come connazionale
che si sa legato per tutta la vita alle sue origini e segue con partecipazione le
vicende della Patria tedesca. Ma l’invito a tenere questo discorso è rivolto a me
in quanto Papa, in quanto Vescovo di Roma, che porta la suprema responsabilità per
la cristianità cattolica. Con ciò Voi riconoscete il ruolo che spetta alla Santa Sede
quale partner all’interno della Comunità dei Popoli e degli Stati. In base a questa
mia responsabilità internazionale vorrei proporVi alcune considerazioni sui fondamenti
dello Stato liberale di diritto. Mi si consenta di cominciare le mie riflessioni
sui fondamenti del diritto con una piccola narrazione tratta dalla Sacra Scrittura.
Nel Primo Libro dei Re si racconta che al giovane re Salomone, in occasione della
sua intronizzazione, Dio concesse di avanzare una richiesta. Che cosa chiederà il
giovane sovrano in questo momento importante? Successo, ricchezza, una lunga vita,
l’eliminazione dei nemici? Nulla di tutto questo egli chiede. Domanda invece: “Concedi
al tuo servo un cuore docile, perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia
distinguere il bene dal male” (1Re 3,9). Con questo racconto la Bibbia vuole indicarci
che cosa, in definitiva, deve essere importante per un politico. Il suo criterio ultimo
e la motivazione per il suo lavoro come politico non deve essere il successo e tanto
meno il profitto materiale. La politica deve essere un impegno per la giustizia e
creare così le condizioni di fondo per la pace. Naturalmente un politico cercherà
il successo che di per sé gli apre la possibilità dell’azione politica effettiva.
Ma il successo è subordinato al criterio della giustizia, alla volontà di attuare
il diritto e all’intelligenza del diritto. Il successo può essere anche una seduzione
e così può aprire la strada alla contraffazione del diritto, alla distruzione della
giustizia. “Togli il diritto – e allora che cosa distingue lo Stato da una grossa
banda di briganti?” ha sentenziato una volta sant’Agostino. Noi tedeschi sappiamo
per nostra esperienza che queste parole non sono un vuoto spauracchio. Noi abbiamo
sperimentato il separarsi del potere dal diritto, il porsi del potere contro il diritto,
il suo calpestare il diritto, così che lo Stato era diventato lo strumento per la
distruzione del diritto – era diventato una banda di briganti molto ben organizzata,
che poteva minacciare il mondo intero e spingerlo sull’orlo del precipizio. Servire
il diritto e combattere il dominio dell’ingiustizia è e rimane il compito fondamentale
del politico. In un momento storico in cui l’uomo ha acquistato un potere finora inimmaginabile,
questo compito diventa particolarmente urgente. L’uomo è in grado di distruggere il
mondo. Può manipolare se stesso. Può, per così dire, creare esseri umani ed escludere
altri esseri umani dall’essere uomini. Come riconosciamo che cosa è giusto? Come possiamo
distinguere tra il bene e il male, tra il vero diritto e il diritto solo apparente?
La richiesta salomonica resta la questione decisiva davanti alla quale l’uomo politico
e la politica si trovano anche oggi. In gran parte della materia da regolare giuridicamente,
quello della maggioranza può essere un criterio sufficiente. Ma è evidente che nelle
questioni fondamentali del diritto, nelle quali è in gioco la dignità dell’uomo e
dell’umanità, il principio maggioritario non basta: nel processo di formazione del
diritto, ogni persona che ha responsabilità deve cercare lei stessa i criteri del
proprio orientamento. Nel terzo secolo, il grande teologo Origene ha giustificato
così la resistenza dei cristiani a certi ordinamenti giuridici in vigore: “Se qualcuno
si trovasse presso il popolo della Scizia che ha leggi irreligiose e fosse costretto
a vivere in mezzo a loro … questi senz’altro agirebbe in modo molto ragionevole se,
in nome della legge della verità che presso il popolo della Scizia è appunto illegalità,
insieme con altri che hanno la stessa opinione, formasse associazioni anche contro
l’ordinamento in vigore…” In base a questa convinzione, i combattenti della resistenza
hanno agito contro il regime nazista e contro altri regimi totalitari, rendendo così
un servizio al diritto e all’intera umanità. Per queste persone era evidente in modo
incontestabile che il diritto vigente, in realtà, era ingiustizia. Ma nelle decisioni
di un politico democratico, la domanda su che cosa ora corrisponda alla legge della
verità, che cosa sia veramente giusto e possa diventare legge non è altrettanto evidente.
Ciò che in riferimento alle fondamentali questioni antropologiche sia la cosa giusta
e possa diventare diritto vigente, oggi non è affatto evidente di per sé. Alla questione
come si possa riconoscere ciò che veramente è giusto e servire così la giustizia nella
legislazione, non è mai stato facile trovare la risposta e oggi, nell’abbondanza delle
nostre conoscenze e delle nostre capacità, tale questione è diventata ancora molto
più difficile. Come si riconosce ciò che è giusto? Nella storia, gli ordinamenti
giuridici sono stati quasi sempre motivati in modo religioso: sulla base di un riferimento
alla Divinità si decide ciò che tra gli uomini è giusto. Contrariamente ad altre grandi
religioni, il cristianesimo non ha mai imposto allo Stato e alla società un diritto
rivelato, un ordinamento giuridico derivante da una rivelazione. Ha invece rimandato
alla natura e alla ragione quali vere fonti del diritto – ha rimandato all’armonia
tra ragione oggettiva e soggettiva, un’armonia che però presuppone l’essere ambedue
le sfere fondate nella Ragione creatrice di Dio. Con ciò i teologi cristiani si sono
associati ad un movimento filosofico e giuridico che si era formato sin dal secolo
II a. Cr. Nella prima metà del secondo secolo precristiano si ebbe un incontro tra
il diritto naturale sociale sviluppato dai filosofi stoici e autorevoli maestri del
diritto romano. In questo contatto è nata la cultura giuridica occidentale, che è
stata ed è tuttora di un’importanza determinante per la cultura giuridica dell’umanità.
Da questo legame precristiano tra diritto e filosofia parte la via che porta, attraverso
il Medioevo cristiano, allo sviluppo giuridico dell’Illuminismo fino alla Dichiarazione
dei Diritti umani e fino alla nostra Legge Fondamentale tedesca, con cui il nostro
popolo, nel 1949, ha riconosciuto “gli inviolabili e inalienabili diritti dell'uomo
come fondamento di ogni comunità umana, della pace e della giustizia nel mondo”. Per
lo sviluppo del diritto e per lo sviluppo dell’umanità è stato decisivo che i teologi
cristiani abbiano preso posizione contro il diritto religioso, richiesto dalla fede
nelle divinità, e si siano messi dalla parte della filosofia, riconoscendo come fonte
giuridica valida per tutti la ragione e la natura nella loro correlazione. Questa
scelta l’aveva già compiuta san Paolo, quando, nella sua Lettera ai Romani, afferma:
“Quando i pagani, che non hanno la Legge [la Torà di Israele], per natura agiscono
secondo la Legge, essi … sono legge a se stessi. Essi dimostrano che quanto la Legge
esige è scritto nei loro cuori, come risulta dalla testimonianza della loro coscienza…”
(Rm 2,14s). Qui compaiono i due concetti fondamentali di natura e di coscienza, in
cui “coscienza” non è altro che il “cuore docile” di Salomone, la ragione aperta al
linguaggio dell’essere. Se con ciò fino all’epoca dell’Illuminismo, della Dichiarazione
dei Diritti umani dopo la seconda guerra mondiale e fino alla formazione della nostra
Legge Fondamentale la questione circa i fondamenti della legislazione sembrava chiarita,
nell’ultimo mezzo secolo è avvenuto un drammatico cambiamento della situazione. L’idea
del diritto naturale è considerata oggi una dottrina cattolica piuttosto singolare,
su cui non varrebbe la pena discutere al di fuori dell’ambito cattolico, così che
quasi ci si vergogna di menzionarne anche soltanto il termine. Vorrei brevemente indicare
come mai si sia creata questa situazione. È fondamentale anzitutto la tesi secondo
cui tra l’essere e il dover essere ci sarebbe un abisso insormontabile. Dall’essere
non potrebbe derivare un dovere, perché si tratterebbe di due ambiti assolutamente
diversi. La base di tale opinione è la concezione positivista, oggi quasi generalmente
adottata, di natura e ragione. Se si considera la natura – con le parole di Hans Kelsen
– “un aggregato di dati oggettivi, congiunti gli uni agli altri quali cause ed effetti”,
allora da essa realmente non può derivare alcuna indicazione che sia in qualche modo
di carattere etico. Una concezione positivista di natura, che comprende la natura
in modo puramente funzionale, così come le scienze naturali la spiegano, non può creare
alcun ponte verso l’ethos e il diritto, ma suscitare nuovamente solo risposte funzionali.
La stessa cosa, però, vale anche per la ragione in una visione positivista, che da
molti è considerata come l’unica visione scientifica. In essa, ciò che non è verificabile
o falsificabile non rientra nell’ambito della ragione nel senso stretto. Per questo
l’ethos e la religione devono essere assegnati all’ambito del soggettivo e cadono
fuori dall’ambito della ragione nel senso stretto della parola. Dove vige il dominio
esclusivo della ragione positivista – e ciò è in gran parte il caso nella nostra coscienza
pubblica – le fonti classiche di conoscenza dell’ethos e del diritto sono messe fuori
gioco. Questa è una situazione drammatica che interessa tutti e su cui è necessaria
una discussione pubblica; invitare urgentemente ad essa è un’intenzione essenziale
di questo discorso. Il concetto positivista di natura e ragione, la visione positivista
del mondo è nel suo insieme una parte grandiosa della conoscenza umana e della capacità
umana, alla quale non dobbiamo assolutamente rinunciare. Ma essa stessa nel suo insieme
non è una cultura che corrisponda e sia sufficiente all’essere uomini in tutta la
sua ampiezza. Dove la ragione positivista si ritiene come la sola cultura sufficiente,
relegando tutte le altre realtà culturali allo stato di sottoculture, essa riduce
l’uomo, anzi, minaccia la sua umanità. Lo dico proprio in vista dell’Europa, in cui
vasti ambienti cercano di riconoscere solo il positivismo come cultura comune e come
fondamento comune per la formazione del diritto, mentre tutte le altre convinzioni
e gli altri valori della nostra cultura vengono ridotti allo stato di una sottocultura.
Con ciò si pone l’Europa, di fronte alle altre culture del mondo, in una condizione
di mancanza di cultura e vengono suscitate, al contempo, correnti estremiste e radicali.
La ragione positivista, che si presenta in modo esclusivista e non è in grado di percepire
qualcosa al di là di ciò che è funzionale, assomiglia agli edifici di cemento armato
senza finestre, in cui ci diamo il clima e la luce da soli e non vogliamo più ricevere
ambedue le cose dal mondo vasto di Dio. E tuttavia non possiamo illuderci che in tale
mondo autocostruito attingiamo in segreto ugualmente alle “risorse” di Dio, che trasformiamo
in prodotti nostri. Bisogna tornare a spalancare le finestre, dobbiamo vedere di nuovo
la vastità del mondo, il cielo e la terra ed imparare ad usare tutto questo in modo
giusto. Ma come lo si realizza? Come troviamo l’ingresso nella vastità, nell’insieme?
Come può la ragione ritrovare la sua grandezza senza scivolare nell’irrazionale? Come
può la natura apparire nuovamente nella sua vera profondità, nelle sue esigenze e
con le sue indicazioni? Richiamo alla memoria un processo della recente storia politica,
nella speranza di non essere troppo frainteso né di suscitare troppe polemiche unilaterali.
Direi che la comparsa del movimento ecologico nella politica tedesca a partire dagli
anni Settanta, pur non avendo forse spalancato finestre, tuttavia è stata e rimane
un grido che anela all’aria fresca, un grido che non si può ignorare né accantonare,
perché vi si intravede troppa irrazionalità. Persone giovani si erano rese conto che
nei nostri rapporti con la natura c’è qualcosa che non va; che la materia non è soltanto
un materiale per il nostro fare, ma che la terra stessa porta in sé la propria dignità
e noi dobbiamo seguire le sue indicazioni. È chiaro che qui non faccio propaganda
per un determinato partito politico – nulla mi è più estraneo di questo. Quando nel
nostro rapporto con la realtà c’è qualcosa che non va, allora dobbiamo tutti riflettere
seriamente sull’insieme e tutti siamo rinviati alla questione circa i fondamenti della
nostra stessa cultura. Mi sia concesso di soffermarmi ancora un momento su questo
punto. L’importanza dell’ecologia è ormai indiscussa. Dobbiamo ascoltare il linguaggio
della natura e rispondervi coerentemente. Vorrei però affrontare con forza ancora
un punto che oggi come ieri viene largamente trascurato: esiste anche un’ecologia
dell’uomo. Anche l’uomo possiede una natura che deve rispettare e che non può manipolare
a piacere. L’uomo non è soltanto una libertà che si crea da sé. L’uomo non crea se
stesso. Egli è spirito e volontà, ma è anche natura, e la sua volontà è giusta quando
egli ascolta la natura, la rispetta e quando accetta se stesso per quello che è, e
che non si è creato da sé. Proprio così e soltanto così si realizza la vera libertà
umana. Torniamo ai concetti fondamentali di natura e ragione da cui eravamo partiti.
Il grande teorico del positivismo giuridico, Kelsen, all’età di 84 anni – nel 1965
– abbandonò il dualismo di essere e dover essere. (Quindi ha aggiunto a braccio: “Mi
consola di pensare che a 84 anni si possa ancora dire qualcosa di ragionevole” – risate
e applausi dei parlamentari). Aveva detto che le norme possono derivare solo dalla
volontà. Di conseguenza, la natura potrebbe racchiudere in sé delle norme solo se
una volontà avesse messo in essa queste norme. Ciò, d’altra parte, presupporrebbe
un Dio creatore, la cui volontà si è inserita nella natura. “Discutere sulla verità
di questa fede è una cosa assolutamente vana”, egli nota a proposito. Lo è veramente?
– vorrei domandare. È veramente privo di senso riflettere se la ragione oggettiva
che si manifesta nella natura non presupponga una Ragione creativa, un Creator Spiritus? A
questo punto dovrebbe venirci in aiuto il patrimonio culturale dell’Europa. Sulla
base della convinzione circa l’esistenza di un Dio creatore sono state sviluppate
l’idea dei diritti umani, l’idea dell’uguaglianza di tutti gli uomini davanti alla
legge, la conoscenza dell’inviolabilità della dignità umana in ogni singola persona
e la consapevolezza della responsabilità degli uomini per il loro agire. Queste conoscenze
della ragione costituiscono la nostra memoria culturale. Ignorarla o considerarla
come mero passato sarebbe un’amputazione della nostra cultura nel suo insieme e la
priverebbe della sua interezza. La cultura dell’Europa è nata dall’incontro tra Gerusalemme,
Atene e Roma – dall’incontro tra la fede in Dio di Israele, la ragione filosofica
dei Greci e il pensiero giuridico di Roma. Questo triplice incontro forma l’intima
identità dell’Europa. Nella consapevolezza della responsabilità dell’uomo davanti
a Dio e nel riconoscimento della dignità inviolabile dell’uomo, di ogni uomo, questo
incontro ha fissato dei criteri del diritto, difendere i quali è nostro compito in
questo momento storico. Al giovane re Salomone, nell’ora dell’assunzione del potere,
è stata concessa una sua richiesta. Che cosa sarebbe se a noi, legislatori di oggi,
venisse concesso di avanzare una richiesta? Che cosa chiederemmo? Penso che anche
oggi, in ultima analisi, non potremmo desiderare altro che un cuore docile – la capacità
di distinguere il bene dal male e di stabilire così un vero diritto, di servire la
giustizia e la pace. Grazie per la vostra attenzione.