Almeno nove persone sono state uccise oggi dalle forze governative in Yemen, nella
terza giornata consecutiva di violenze contro i ribelli. Tra domenica e lunedì scorsi,
quasi una cinquantina di persone erano morte nella repressione delle manifestazioni
dell’opposizione e in scontri tra militari passati all’opposizione e truppe lealiste.
A Sanaa, intanto, i diplomatici internazionali tentano di mediare la transizione del
regime. Il servizio di Fabrizio Angeli:
Nuove proteste
nella cosiddetta Piazza del cambiamento, spaccature all’interno delle forze armate,
antichi conflitti tribali. Sono almeno 9 le persone morte oggi in una giornata che
fa registrare un’escalation di violenze intestine e che, secondo diversi osservatori,
rischia di sfociare in una vera guerra civile. La capitale Sanaa è da mesi divisa
in zone sotto il controllo governativo e in aree in mano alle truppe ribelli del generale
Ali Mohsen, parente del presidente Saleh. Quest’ultimo, riparato in Arabia Saudita
per la convalescenza dopo l’attentato subito nel giugno scorso, è di fatto al potere
da 33 anni. Mediatori dell’Onu e del Golfo sono nella capitale per negoziare una transizione
dei poteri che spezzi la catena di proteste e repressioni che va avanti da mesi. Secondi
i piani proposti dalle monarchie arabe, in contatto con Ue e Usa, l’opposizione dovrebbe
costituire un governo di unità nazionale. Saleh si dimetterebbe in cambio dell’immunità.
E a seguire, le elezioni presidenziali.
Nello Yemen sale a 55 il numero
dei morti da domenica, compresi due bambini, e si contano più di 900 feriti. Sul fronte
diplomatico, secondo fonti locali, è atteso da ieri l’accordo a Sanaa, tra l’inviato
dell'Onu Bin Omar e al Zayani, mediatore dei Paesi del Golfo, sulla proposta per uscire
dalla crisi. Salvatore Cernuzio ne ha parlato con l’ambasciatore Giuseppe
Panocchia, esperto di Medio Oriente:
R. – Nello
Yemen, al momento, c’è una situazione di stallo perché mi pare che il tentativo di
mettere da parte il presidente Saleh sia inattuale, soprattutto perché credo che,
da parte americana, si abbiano grosse preoccupazioni per quello che sarebbe uno Yemen
privo di una guida forte. Un Paese, quindi, facile preda di un’estendersi dell’influenza
di al Qaeda e di altri organismi terroristici. La vicina Arabia Saudita non ha nessun
interesse a vedere ancora più turbolente le sue frontiere.
D. – Attualmente
anche la Siria sta vivendo una situazione turbolenta: si può fare un confronto tra
queste due regioni?
R. – Incomincerei a dire che la Siria, da un punto
di vista della società civile, è molto ma molto più avanzata, quindi certamente non
è comparabile con le problematiche di carattere tribale che, ad esempio, caratterizzano
lo Yemen. La Siria ha un grosso problema di politicizzazione, anche perché l’attuale
presidente è espressione di una tendenza socialista araba. D’altra parte, poi, è un
Paese strategicamente importante sia per il suo ruolo verso la questione palestinese,
sia per il suo rapporto con l’Iran e, quindi, lì la coscienza occidentale è piuttosto
appannata e poco reattiva.
D. – Al contrario di quello che è stato in
Libia?
R. – La Libia, da un punto di vista economico, non aveva problemi;
aveva problemi di società che nascevano, non solo dall’ineguale distribuzione della
ricchezza, ma anche dalla storica rivalità tra bengasini e tripolini e, al tempo stesso
,dai tentativi di una componente islamista, fondamentalista di svolgere un ruolo.
E Gehddafi aveva sempre evitato di dare ospitalità all’islamismo militante dei fondamentalisti,
preferendo di finanziare il terrorismo su base nazionalistica.
D. –
Quale potrebbe essere un punto di svolta per lo Yemen?
R. – Secondo
me sarebbe necessario, innanzitutto, che gli europei facessero delle riflessioni che
non partano solo da un europocentrismo, considerando la nostra società, i nostri diritti,
il nostro modo di vivere, come l’unico parametro esistente; bisogna vedere, in che
misura, certi parametri possano essere gradualmente portati avanti anche nel mondo
arabo. (bf)