Tra i nativi del Kenya all'Uganda: un'esperienza missionaria. Intervista con il padre
comboniano Mariano Tibaldo
“La testimonianza di vita, più che le parole, è ciò che parla alla gente”: questo
messaggio guida, ogni giorno, la Congregazione comboniana. Gli oltre 1700 sacerdoti
che ne fanno parte, sparsi nei cinque continenti, hanno consacrato interamente la
loro vita all'evangelizzazione di quei popoli che non conoscono il messaggio di Gesù
Cristo. Giorgia Innocenti ne ha parlato con padre Mariano Tibaldo, comboniano,
impegnato in Kenya e Uganda:
R. – Sono
padre Mariano Tibaldo e sono missionario comboniano, ordinato nel 1982. Sono stato
prima in Uganda per otto anni e poi in Kenya per il resto della mia esperienza missionaria
e sono stato missionario soprattutto in una zona al confine con il Kenya e al confine
con l’Uganda, operando nella tribù dei Pokot: un popolo seminomade di pastori, dedito
all’allevamento del bestiame. In questo posto ho cercato di imparare la lingua e la
cultura, perché è la prima cosa che un missionario deve fare: imparare a comunicare
e imparare i modi di esprimersi di una popolazione. Essenzialmente, questa popolazione,
per il 70 per cento, seguiva una religione tradizionale e quindi naturalmente non
cristiana. C’erano comunque diversi cristiani e qualche musulmano, anche se non molti.
La maggioranza dei cristiani era cattolica e poi c’erano altre denominazioni cristiane.
D.
– Quali sono le maggiori difficoltà che ha incontrato?
R. – La sfida
è quella di far capire che Gesù Cristo è il centro della nostra vita e per chi ha
una religione, un modo di vivere, una cultura differente è molto difficile capire.
E’ una relazione che si basa sulla nostra vita, quindi sul far vedere che effettivamente
la fede cristiana è una fede che riempie la vita, una fede che dà gioia, che dà speranza,
che dà unità, che dà pace e soprattutto che la testimonianza personale e la testimonianza
di vita, più che le parole, parlano alla gente.
D. – Ad un buon missionario
sono necessarie disponibilità, sacrificio e soprattutto una grande fede...
R.
– Una fede soprattutto che si basi sul fatto che uno ha fatto un incontro fondamentale
con Gesù Cristo, un incontro che ha cambiato la vita, che diventa un innamoramento
per la vita: in fin dei conti, un incontro che ha scombussolato la tua vita. Poi,
tutte le cose diventano in certo modo secondarie: le difficoltà della lingua, le difficoltà
fisiche, le difficoltà anche psicologiche, le difficoltà di inserimento. E’ un po’
come quando si è innamorati.
D. – Che cosa volete ricordare del vostro
fondatore Daniele Comboni?
R. – Che il nostro fondatore sia morto in
Africa, sia morto a Khartoum nel 1831 e sia morto praticamente di stenti.
Aveva 51 anni, quindi relativamente giovane. Quello che mi ha impressionato sempre
è che sia stato sepolto a Khartoum e poi con la rivoluzione delMahdi, in quegli anni, subito dopo la sua morte, che anche la sua tomba
sia stata dissacrata e che le sue ossa siano state sparse in quel giardino dove era
stato sepolto. Comboni ha vissuto l’Africa e in qualche modo è diventato parte di
quella terra africana. Lui voleva salvare l’Africa attraverso l’Africa e voleva che
l’evangelizzazione del Paese fosse non un fatto semplicemente del suo gruppo, ma dovesse
essere fatto attraverso una partecipazione, una sinergia di tutte le forze della Chiesa
verso l’Africa che, a quel tempo, ricordiamo, viveva il problema del colonialismo
e dello schiavismo, per cui ci si domandava se l’africano avesse l’anima. (ap)