Afghanistan: attentato dei talebani ad Herat, almeno 22 morti
Sanguinosa offensiva dei talebani in Afghanistan. Almeno 22 civili sono rimasti uccisi
e una decina feriti a causa dell'esplosione di un ordigno rudimentale nella provincia
afgana di Herat. Tra le vittime, che viaggiavano su un minibus investito in pieno
dalla deflagrazione, anche donne e bambini. A Gardez, invece, capoluogo della provincia
sud-orientale di Paktia, due guardie afghane hanno perso la vita in un attentato suicida
contro una base militare americana. La responsabilità dell'azione è stata immediatamente
rivendicata dai talebani. La base ospita i Gruppi provinciali di ricostruzione, formati
da civili e da soldati della Nato, che portano avanti progetti di sviluppo. A Riccardo
Redaelli, docente di geopolitica presso l’Università Cattolica di Milano, Stefano
Leszczynski ha chiesto i motivi di questa impennata negli attacchi dei talebani.
R. – E’ da
anni che i talebani sono sempre più aggressivi e questo nonostante la Nato abbia ripetutamente
raccolto sul campo - con una serie di operazioni militari - dei buoni risultati. La
spiegazione di questa recrudescenza degli attacchi è che non abbiamo la forza e non
ci sono abbastanza soldati per controllare tutto il territorio e la dinamica dell’insorgenza
talebana è praticamente invincibile in questa situazione. Poi, però, c’è anche una
risposta più contingente: da tempo sono iniziate trattative per raggiungere un compromesso
con i “talebani moderati”, qualsiasi cosa voglia dire moderati... Alzare quindi la
posta, far vedere che possono colpire impunemente, vuol dire essere più forti al tavolo
delle trattative ed ottenere di più.
D. – C’è anche un calo d’interesse
dell’opinione pubblica per quanto avviene in Afghanistan, eppure lì si combatte una
vera e propria guerra quotidiana…
R. – Ci sono varie ragioni. La prima
è che le forze armate occidentali sono in Afghanistan da dieci anni. E’ un tempo praticamente
infinito, soprattutto in una società che "digerisce" tutte le notizie con questa rapidità.
La seconda è che tutte le opinioni pubbliche internazionali sono ostili e contrarie
alla presenza. Fosse per l’opinione pubblica, ci ritireremmo da quasi ogni teatro
di crisi. I governi lo sanno, ci troviamo in una forte crisi finanziaria, una crisi
fortissima di fiducia e quindi tentano di non sottolineare la nostra presenza all’estero.
D.
– Anche da un punto di vista politico si sente parlare poco dell’Afghanistan…
R.
– Il governo centrale afghano è stato chiaramente al di sotto delle aspettative, è
diviso. La verità è che siamo arrivati in Afghanistan, dieci anni fa, con delle speranze
eccessive: pensavamo di trasformare questo Paese devastato in una sorta di Svizzera,
in una democrazia, con benessere e libertà. Tutto questo, però, non si è avverato.
Mi sembra che la maggior parte dei governi occidentali stia solo cercando un modo
onorevole di lasciare il prima possibile senza dire che la Nato ha fallito.
D.
– Una sconfitta non solo militare ma anche internazionale: le Nazioni Unite hanno
investito molto sullo sviluppo dell’Afghanistan…
R. – Se non c’è sicurezza
nelle campagne, le organizzazioni non governative ed i tecnici delle Nazioni Unite
non possono lavorare. Tutto questo si riflette sul fatto che gli afghani non vedono
i benefici della nostra presenza.
D. – Cosa significherebbe, a livello
geo-politico, lasciare un Afghanistan in questo stato, lasciarlo a se stesso?
R.
– Lasciarlo così, di colpo, ritirarsi, significherebbe anche dimostrare ai jihadisti,
all’estremismo islamico violento, che essi possono vincere. E questo sarebbe il messaggio
più catastrofico che potremmo lasciare. (vv)