A 50 anni dall’accesso all’indipendenza da parte della maggior parte dei suoi Stati,
l’Africa dovrebbe aver già raggiunto la più elementare delle sovranità. Quella alimentare.
Invece no! L’attuale crisi nel Corno d’Africa è emersa come la punta di un iceberg
a ricordarci il pericolo di fame e malnutrizione in cui possono incorrere, ancora
oggi, milioni di africani; a ricordarci quanto nascoste e profonde siano le cause
di questo pericolo. Già due anni fa, le rivolte per il caro vita esplose in diverse
parti dell’Africa lo avevano anticipato. E questi moti precedenti non sono estranei
alla cosiddetta “Primavera araba”, o africana per meglio dire: dal Mali degli anni
90 alla Tunisia e all’Egitto dell’anno in corso, vari regimi incuranti del destino
dei loro popoli sono stati rovesciati dalla forza delle piazze. Eppure, prima della
miccia che nel dicembre scorso ha infuocato la Tunisia, ne abbiamo sentito parlare
poco... Forse le tante immagini di “bambini scheletrici in braccio a mamme stremate”,
icona comune sui grandi network della comunicazione, fanno più effetto di una rivolta
di piazza. Inteneriscono di più i cuori e suscitano una maggiore solidarietà, anche
se sempre insufficiente ed a volte un po’ tardiva.La speranza, oggi, è che le violenze
subite e le pene sofferte da tanti uomini e donne nel mondo non siano vane; che i
moti spingano i responsabili a valutare con coscienza la dimensione di questo iceberg,
a trovare finalmente il coraggio e gli strumenti per garantire la sicurezza alimentare
a livello universale: per gli africani e per tutti gli “affamati” del mondo.
Ma
chi sono questi “responsabili”? Innanzitutto i governanti africani che – al di là
delle differenze di forma e appartenenza tradizionale - dovrebbero sentirsi profondamente
legati a tutti i connazionali da un destino comune. Sono loro che hanno il compito
di analizzare la situazione e di adottare strategie a breve, media e lunga scadenza
per assicurare il pane a tutti i cittadini. E hanno tutti gli strumenti per farlo
perché, nonostante guerre e condizionamenti climatici, nel suo insieme l’Africa dispone
di risorse naturali sufficienti a sfamare l’intera popolazione. Basti pensare che
a oggi soltanto il 14% della terra disponibile è utilizzata. Tuttavia, una
politica agricola globale africana, che consenta di trasferire risorse dalle regioni
più fertili a quelle più povere, richiede maggiore unità nel continente. L’Unione
Africana sta compiendo importanti sforzi in tal senso: il NEPAD (nuova partnership
per lo sviluppo economico dell’Africa) istituito dall’UA dieci anni fa, ha come primo
pilastro proprio la sicurezza alimentare e nutrizionale in tutti gli Stati. Nel 2003
a Maputo il vertice dell’UA è tornato a insistere sull’agricoltura, esortando i Paesi
membri a investire almeno un 10% del proprio budget nel settore. Eppure, a oggi neanche
una diecina degli ormai 54 Stati dell’Africa ha dato seguito a tali indicazioni. Nel
settore agricolo sono impiegati la stragrande maggioranza degli africani e più del
50% degli abitanti del Pianeta, ma questo non viene ancora preso seriamente in
considerazione. Così, sempre più le popolazioni rurali sono costrette a riversarsi
nelle città, con un aumento esponenziale della povertà generalizzata.
Non
è sufficiente fare dichiarazioni clamorose e pubblicitarie, se esse non sono accompagnate
da misure concrete e se non si coinvolgono tutti gli attori del mondo agricolo nella
fase di assunzione delle decisioni fondamentali, nella valutazione delle strategie
e nell’applicazione delle stesse, tuona il senegalese Mamadou Cissokho,
figura di spicco del movimento contadino africano intervistato dalla nostra emittente.
Sebbene qualcosa si muova, le misure adottate finora risultano non all’altezza delle
necessità. Secondo Mamadou, la sfida maggiore è quella di portare i governanti africani
a capire che bisogna agire esattamente come le potenze mondiali e i Paesi emergenti
hanno già fatto: iniettare massicci investimenti pubblici nell’agricoltura, lasciando
il privato libero di intervenire nei settori dell’agro-industria e della distribuzione. Al
contrario, le grandi agenzie internazionali - Banca Mondiale e FMI in testa - insistono
sugli investimenti privati come la sola ricetta che porterà allo sviluppo economico.
E i Capi africani si lasciano convincere: invece che perseguire l’autonomia e la sovranità
alimentare - in mancanza delle quali non si può certo parlare di “Indipendenza Nazionale”
- milioni di ettari delle migliori terre africane vengono svenduti a investitori stranieri,
che coltivano prodotti da esportazione, per periodi che arrivano fino a 99 anni. Così,
fiori, cereali per bio-carburanti e generi alimentari destinati ad altri popoli lasciano
gli africani nella malnutrizione e nella fame. A questo si aggiungono le sovvenzione
dell’Unione Europea ai propri agricoltori, che inondano i mercati africani dei loro
prodotti a basso costo. Una chiara violazione “dei diritti dei popoli”, per usare
un’espressione del beato Giovani Paolo II; un crimine contro i contadini africani,
che devono poter vivere del loro lavoro, ribadisce Mamadou Cissokho ai nostri
microfoni. Senza dimenticare il ruolo anche dei musulmani, Cissokho ci prega di esortare
i Capi religiosi cristiani a pronunciarsi in tal senso, per far sì che le cose finalmente
cambino.
La Chiesa lo fa da anni. Dall’enciclica Popuorum Progressio
di Papa Paolo VI alla Caritas in Veritate dell’attuale Pontefice, la Dottrina
Sociale della Chiesa è piena di richiami ad una maggior giustizia sociale in tutti
i sensi. L’Assemblea Speciale del Sinodo dei Vescovi per l’Africa, riunitasi in
Vaticano nell’ottobre 2009, ha ribadito l’esortazione nel capitolo “Terra e acqua”
delle Proposizioni Finali: La produzione di alimenti per l’esportazione non metta
in pericolo la sicurezza alimentare né le necessità delle generazioni future.
Nell’Angelus di domenica 31 luglio Benedetto XVI ha lanciato l’ennesimo appello
affinché il cibo sia garantito in maniera permanente, e ancor più in situazioni di
estrema necessità, come attualmente accade nel Corno d’Africa. Caritas-Africa ha immediatamente
messo a disposizione 25 mila euro e, in linea con lo spirito di “un popolo, una nazione”,
la Conferenza Episcopale del Kenia ha creato un fondo per le vittime della siccità
nel territorio keniano e negli altri Paesi della regione. A livello politico, particolare
sensibilità è stata dimostrata dal Gabon, che ha messo a disposizione 2,5 milioni
di dollari attraverso la FAO, e la settimana scorsa l’UA ha devoluto 300 mila dollari
alla sola Somalia, principale Paese colpito dalla carestia, programmando inoltre un
vertice di donatori per il 9 agosto, in seguito posticipato al 25.
Le proposte
si moltiplicano ogni giorno: segni di un continente che si muove, certo, ma a rilento.
Il suo organismo più significativo, l’UA appunto, sembra “un gigante dai piedi d’argilla”
e per l’Africa, che considera la solidarietà una delle sue più belle caratteristiche,
una sua peculiarità agli occhi del resto del mondo, sarebbe da aspettarsi molto di
più. Lo stomaco degli affamati non può aspettare. Quante mamme e bambini perderanno
la vita? Quanti fanciulli rimarranno segnati per la vita dalle conseguenze negative
della malnutrizione? Non ci è dato saperlo. Quel che però sappiamo è che solo la
buona volontà dei leaders africani ed internazionali potrà salvare gli affamati e
mettere l’Africa finalmente sulla strada della sovranità alimentare. É necessario
produrre innanzitutto per i bisogni nutrizionali interni e consumare – laddove possibile
- i prodotti locali invece di quelli d’importazione. Oltre alla Chiesa, la piattaforma
continentale dei contadini africani continua a fare pressione sui politici, anche
contro l’accaparramento delle terre agricole africane da parte degli investitori stranieri.
I movimenti nazionali e regionali conducono questa battaglia quotidiana da almeno
trent’anni e in modo sempre più organizzato, ricorda ancora Mamoudou Cissokho,
che nel suo libro “Dieu n’est pas un paysan” (Dio non è un contadino, pubblicato nel
2009 da «Présence Africaine»), riporta le enormi difficoltà incontrate sia presso
i politici africani sia a livello internazionale dalle organizzazioni che perseguono
la giustizia alimentare.
La strada da percorrere è, quindi, ancora lunga. Richiede
passi concreti, ponderati e programmati per tappe. L’esperienza fallimentare del
passato e l'attuale crisi finanziaria mondiale mostrano chiaramente una realtà più
complessa di quanto illustrato dalle formule semplicistiche riproposte universalmente
dagli organismi economici internazionali. Per quanto riguarda l’Africa, secondo
Mamadou non è il caso di fare scelte poco ponderate pensando di essere in ritardo.
Non è mai troppo tardi!Da oltre 50 anni l’UE programma la sua politica agricola
comune, aggiustando di volta in volta il tiro. Lo stesso fanno gli Stati Uniti. L’Africa
deve solo saper pianificare il proprio cammino, coinvolgendo tutti i protagonisti
del settore e per mezzo di processi di valutazione adeguati. Proprio come ha fatto
Lula da Silva in Brasile con il programma “Fame Zero”, riferisce questo erudito
agricoltore senegalese, citando il caso brasiliano come un esempio di saggia volontà
politica che molti leaders africani dovrebbero seguire. Imparare quindi dagli altri,
riprendere le buone pratiche ma adattandole, ovviamente, al contesto fisico, sociale
e culturale africano.
Speriamo che qualcuno lo ascolti… E che in Africa,
nel mondo, non ci sia mai più fame di cibo, bensì fame di Dio, come disse nel 1985
Giovanni Paolo II a Lima, in Perù.
(A cura di Maria Dulce Araújo
Évora – Programma Portoghese/ Radio Vaticana).