Il governo israeliano alle prese con un vasto movimento di protesta per il carovita
mostra segnali di debolezza. Domenica oltre 150mila persone sono scese in piazza a
Tel Aviv per manifestare contro le mancate riforme economiche e la continua crescita
dei prezzi per i beni primari. Una situazione che ha portato alle dimissioni del direttore
del ministero delle Finanze Haim Shani. Il premier Netanyahu per tacitare il dissenso
ha annunciato una revisione delle priorità di spesa nel bilancio statale, ma rischia
di scontentare la componente ultraortodossa fondamentale per la tenuta dell’esecutivo.
Su questa crisi interna ad Israele Stefano Leszczynski ha intervistato Eric
Salerno, corrispondente per il Medio Oriente del quotidiano Il Messaggero:
R. - La crisi
arrivata in Israele è una crisi strisciante, che finalmente vede un movimento a livello
popolare, perché i sindacati in Israele sono stati abbastanza zitti e controllati
dal governo e dallo Stato in questi anni. Non sono stati per niente aggressivi. E’
vero che l’economia israeliana è un’economia forte, ma è anche vero che il costo della
vita è altissimo in Israele.
D. - Considerato il vasto consenso popolare
che c’è in questa protesta e il fatto che i media appoggino gli oppositori, c’è il
rischio di una crisi di governo anche in Israele?
R. - Teoricamente
sì. Netanyahu sta cercando di evitare questa crisi di governo e questo soprattutto
perché mentre riesce a controllare tutte le pressioni politiche che riguardano il
futuro dello Stato, riuscendo ad emanare leggi definite da molti media israeliani
razziste nei confronti degli arabi, ma kartiste nei confronti della libertà di espressione,
non è successo niente: la piazza non si è mossa. Direi anzi che non c’è stata piazza
per questo. Per questioni economiche la gente invece comincia a muoversi e questi
moti cominciano a turbare Netanyahu e la sua coalizione.
D. - In particolare
queste manifestazioni avvengono in un periodo molto difficile per tutta l’area: Israele
è circondata da Paesi in sommovimento sociale, a partire dalla Siria…
R.
- Certamente, però gli israeliani hanno da qualche anno un atteggiamento rispetto
all’esterno molto freddo. Sì, si preoccupano di tanto in tanto della minaccia iraniana;
ma non guardano con particolare attenzione - e stiamo parlando a livello popolare
e non di analisti - a quello che sta succedendo nei Paesi limitrofi. C’è da ricordare,
nell’ambito di questo discorso sul movimento popolare che in questo momento contesta
il governo, che sono quasi un milione gli israeliani che vivono all’estero. E’ molto
importante notare che per un Paese giovane come Israele, per un Paese che è nato per
accogliere gli ebrei, ecco che questi ebrei hanno deciso di andare da qualche altra
parte, perché trovano condizioni sociali migliori. Ci troviamo di fronte a dei giovani
soprattutto che non riescono a permettersi una casa dove andare ad abitare… E questo
ha rappresentato l’inizio di questa contestazione. (mg)