2011-07-27 15:48:03

Budapest: le conclusioni del Colloquio europeo delle Parrocchie


Divenire «fontane di speranza» in un contesto in cui materialismo e una buona dose di disillusione alimentano l’avanzare della secolarizzazione. A questo sono chiamate le parrocchie del continente europeo. Un compito non facile, soprattutto se si guarda, in alcune situazioni, alle forze in campo, ma certamente esaltante e possibile. È questa la convinzione di Hubert Windisch, sacerdote e docente di teologia pastorale all’Università di Friburgo, in Germania, al quale sono state affidate le conclusioni del 26° Colloquio europeo delle parrocchie svoltosi la settimana scorsa a Nyíregyháza, in Ungheria. L’incontro - riferisce L'Osservatore Romano - al quale hanno partecipato rappresentanti di 17 Paesi, è stato dedicato appunto al tema «Parrocchie, luoghi di speranza. Pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi». Ma è stato anche l’occasione per un confronto tra le Chiese dell’est e dell’ovest dell’Europa, oltre che un momento di riflessione ed esperienza sul cammino ecumenico. Windisch ha riconosciuto che oggi le parrocchie sono generalmente considerate «luoghi di speranze piccole, quotidiane, come tanti altri». Ma va anche sottolineato che in esse c’è una «grande speranza» che «è ancorata in Dio stesso ed è una virtù che ci viene da Lui». Per trasmettere questa speranza, coloro che abitano le parrocchie devono essere «icone di Cristo e del cielo per il mondo» e «attuare una sorta di trasparenza spirituale» della loro vita di fede e dei legami di fraternità e di amicizia che sperimentano. Per don Luca Bressan, docente di teologia pastorale al seminario arcivescovile di Milano, «la cultura urbana, obbliga il cristianesimo occidentale a ripensare in modo serio le forme della sua tradizionale presenza tra la gente» e alle parrocchie è richiesta «un’operazione paziente e attenta di discernimento e di immaginazione pastorale». Tra le strade percorribili quella di «utilizzare i legami della solidarietà per annunciare la portata universalistica e assolutamente gratuita della salvezza cristiana». E «istituire delle reti di relazioni capaci di rendere i luoghi ecclesiali davvero degli spazi in cui si respira la logica “altra” e “alternativa” della predicazione del Regno compiuta da Gesù». Per mons. Alphonse Borras, vicario generale della diocesi di Liegi, sia la speranza sia le parrocchie sono oggi «realtà problematiche». Nella nostra epoca, infatti, si è rotto il legame tra la vita locale e le parrocchie, e la «cultura post-moderna è meno sensibile al tempo, al futuro, alla storia che tende verso un fine, che è la visione giudeo-cristiana». In questo contesto la parrocchia diventa luogo di speranza se si presenta come «una comunità per tutti senza condizioni preliminari». I parrocchiani vivono la fede e la speranza nell’oggi e le parrocchie sono «luoghi per la Parola, l’Eucaristia, la diaconia e il discernimento»: le Chiese locali non possono pensare di «riformare la società», ma certamente possono «inventare il presente». Nel corso dell’incontro grande spazio è stato dato anche alle testimonianze della vita nelle parrocchie nei Paesi dell’Europa dell’est, durante il periodo delle dittature comuniste, per le quali «la religione era il nemico da abbattere». Per il francescano Kálmán Peregrin, «furono contrastati in particolare i cattolici, perché facevano riferimento a Roma e manifestavano in maniera concreta che l’uomo dispone di certi ambiti non disponibili alla dittatura dello Stato». In Ungheria, le chiese non vennero chiuse, ma anche qui, come altrove, «le scuole, gli ospedali, ma anche tutte le attività pastorali svolte dai religiosi vennero eliminate, gli ordini sciolti e monaci e monache mandati a lavorare; molti di loro, però, mantennero la fede». (R.P.)







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