Budapest: le conclusioni del Colloquio europeo delle Parrocchie
Divenire «fontane di speranza» in un contesto in cui materialismo e una buona dose
di disillusione alimentano l’avanzare della secolarizzazione. A questo sono chiamate
le parrocchie del continente europeo. Un compito non facile, soprattutto se si guarda,
in alcune situazioni, alle forze in campo, ma certamente esaltante e possibile. È
questa la convinzione di Hubert Windisch, sacerdote e docente di teologia pastorale
all’Università di Friburgo, in Germania, al quale sono state affidate le conclusioni
del 26° Colloquio europeo delle parrocchie svoltosi la settimana scorsa a Nyíregyháza,
in Ungheria. L’incontro - riferisce L'Osservatore Romano - al quale hanno partecipato
rappresentanti di 17 Paesi, è stato dedicato appunto al tema «Parrocchie, luoghi di
speranza. Pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza
che è in voi». Ma è stato anche l’occasione per un confronto tra le Chiese dell’est
e dell’ovest dell’Europa, oltre che un momento di riflessione ed esperienza sul cammino
ecumenico. Windisch ha riconosciuto che oggi le parrocchie sono generalmente considerate
«luoghi di speranze piccole, quotidiane, come tanti altri». Ma va anche sottolineato
che in esse c’è una «grande speranza» che «è ancorata in Dio stesso ed è una virtù
che ci viene da Lui». Per trasmettere questa speranza, coloro che abitano le parrocchie
devono essere «icone di Cristo e del cielo per il mondo» e «attuare una sorta di trasparenza
spirituale» della loro vita di fede e dei legami di fraternità e di amicizia che sperimentano.
Per don Luca Bressan, docente di teologia pastorale al seminario arcivescovile di
Milano, «la cultura urbana, obbliga il cristianesimo occidentale a ripensare in modo
serio le forme della sua tradizionale presenza tra la gente» e alle parrocchie è richiesta
«un’operazione paziente e attenta di discernimento e di immaginazione pastorale».
Tra le strade percorribili quella di «utilizzare i legami della solidarietà per annunciare
la portata universalistica e assolutamente gratuita della salvezza cristiana». E «istituire
delle reti di relazioni capaci di rendere i luoghi ecclesiali davvero degli spazi
in cui si respira la logica “altra” e “alternativa” della predicazione del Regno compiuta
da Gesù». Per mons. Alphonse Borras, vicario generale della diocesi di Liegi, sia
la speranza sia le parrocchie sono oggi «realtà problematiche». Nella nostra epoca,
infatti, si è rotto il legame tra la vita locale e le parrocchie, e la «cultura post-moderna
è meno sensibile al tempo, al futuro, alla storia che tende verso un fine, che è la
visione giudeo-cristiana». In questo contesto la parrocchia diventa luogo di speranza
se si presenta come «una comunità per tutti senza condizioni preliminari». I parrocchiani
vivono la fede e la speranza nell’oggi e le parrocchie sono «luoghi per la Parola,
l’Eucaristia, la diaconia e il discernimento»: le Chiese locali non possono pensare
di «riformare la società», ma certamente possono «inventare il presente». Nel corso
dell’incontro grande spazio è stato dato anche alle testimonianze della vita nelle
parrocchie nei Paesi dell’Europa dell’est, durante il periodo delle dittature comuniste,
per le quali «la religione era il nemico da abbattere». Per il francescano Kálmán
Peregrin, «furono contrastati in particolare i cattolici, perché facevano riferimento
a Roma e manifestavano in maniera concreta che l’uomo dispone di certi ambiti non
disponibili alla dittatura dello Stato». In Ungheria, le chiese non vennero chiuse,
ma anche qui, come altrove, «le scuole, gli ospedali, ma anche tutte le attività pastorali
svolte dai religiosi vennero eliminate, gli ordini sciolti e monaci e monache mandati
a lavorare; molti di loro, però, mantennero la fede». (R.P.)