Corno d'Africa. Mons. Bertin: rispondere subito all'appello del Papa. A rischio la
vita di milioni di persone
In diversi Paesi dell’Africa Orientale, sono oltre 12 milioni le persone che rischiano
di morire di fame. Tra queste, i bambini al di sotto dei cinque anni sono i più vulnerabili.
La Chiesa è in prima linea e la rete Caritas ha messo a disposizione un primo aiuto
di 300 mila euro. Ma per evitare una catastrofe umanitaria, la comunità internazionale
deve agire velocemente: l’appello del Papa ieri all’Angelus per le popolazioni del
Corno d’Africa e in particolare della Somalia, colpite da “una gravissima siccità”,
deve trovare una risposta adeguata e immediata. E’ quanto sottolinea, al microfono
di Amedeo Lomonaco, l’amministratore apostolico di Mogadiscio e vescovo di
Gibuti, mons. Giorgio Bertin:
R. - Sono
certamente molto grato per questo intervento del Santo Padre, anche perché incoraggia
la comunità internazionale ad intervenire. E’ già successo in passato che il Papa
abbia lanciato appelli per la Somalia. Ricordo che alcuni rappresentanti somali mi
avevano scritto anche una lettera da presentare al Santo Padre per ringraziarlo per
avere attirato l’attenzione internazionale sul problema somalo.
D. -
Un appello che deve avere però risposte immediate. Bisogna fare presto perché la situazione
è sempre più drammatica …
R. - Bisogna fare presto: si tratta di spostare
soldi, di acquistare viveri, di trasportare tende. Ci vorrà un po’ di tempo e nel
frattempo, soprattutto i bambini piccoli, al di sotto dei cinque anni, purtroppo moriranno.
D.
- L’Onu parla della peggiore siccità degli ultimi 60 anni, però la gente della Somalia
e di tutto il Corno d’Africa convive da sempre con la siccità. Cosa acuisce questa
crisi?
R. - Nel caso della Somalia la siccità è così grave perché si
aggiunge alla situazione di insicurezza, di conflitto e di assenza dello Stato in
questi ultimi 20 anni. Già in passato alcune organizzazioni umanitarie hanno dovuto
abbandonare il Paese, altre sono state addirittura cacciate, perché si diceva che
nella loro agenda c’erano altre intenzioni. Io vorrei che questo aspetto, quello dell’insicurezza,
e i tentativi per restaurare lo Stato in questo momento non siano accantonati per
il problema umanitario. Bisogna far rinascere lo Stato e una società civile che funzioni.
D.
- Quindi, un corridoio umanitario, un’assistenza concreta verso questa popolazione
deve essere sempre abbinata ad una rete politica e sociale, che in qualche modo possa
funzionare. Adesso invece è assente…
R. - Purtroppo è assente e allora
rimane solo una piccola possibilità, quella tradizionale attraverso gli anziani, i
capi tribù. Il loro ruolo si è però molto affievolito in questi ultimi anni. Anche
per questo l’idea di corridoi umanitari dovrebbe essere studiata, ma non è facile
da mettere in pratica. Chiaramente, rimane l’area di Mogadiscio dove il porto e l’aeroporto
ed alcune infrastrutture sono sotto il controllo del governo federale di transizione
che però non governa molto. Ma almeno, in questa zona di Mogadiscio, gli aiuti internazionali
possono affluire. Poi bisognerà vedere come distribuirli, sapendo che nel frattempo
la popolazione particolarmente colpita si sta dirigendo in tre direzioni: verso il
confine con il Kenya, quello con l’Etiopia e verso Mogadiscio. Speriamo che non si
arrivi alla tragedia del 1992, quando forse mezzo milione di persone sono morte per
fame e disordini. Spero tanto che la comunità internazionale stavolta possa agire
con maggior prontezza, sapendo anche quali sono le difficoltà per raggiungere almeno
i somali che vivono in Somalia. (ma)