Due sbarchi di immigrati sulle coste italiane. Uno in Puglia, con 31 persone – tra
afghani, pakistani e iracheni – bloccate la notte scorsa a Lecce, dopo aver raggiunto
la terraferma con uno yacht. L’altro, in Calabria, ha riguardato 52 immigrati a bordo
di una piccola imbarcazione, intercettata a largo di Riace e fatta approdare nel porto
di Roccella Jonica. Provengono, per la maggior parte dall’Afghanistan e alcuni da
Iran e Siria. Tra loro, anche 20 bambini, la metà dei quali sotto i due anni.
Il
perdurare dell’emergenza umanitaria in Libia alimenta il flusso incessante di profughi
in cerca di sicurezza nei Paesi vicini. Nel campo di Shousha, a Ben Garden, lungo
il confine, in territorio tunisino, particolarmente drammatica è la condizione degli
esuli di nazionalità non libica: somali, eritrei, nigeriani immigrati per lavoro in
Libia, che oggi scontano il paradosso di una legislazione iniqua. Claudia Di Lorenzi
ne ha parlato con Paolo Beccegato, responsabile dell'Area internazionale di Caritas
Italia, in questi giorni visita nel campo:
R. - I profughi
di nazionalità libica sono persone che, generalmente per un accordo tra governi, possono
liberamente muoversi in Tunisia. Non sono quindi bloccati nei campi, sono ospiti di
amici, parenti, o hanno comunque i mezzi per sostenersi. Queste persone – si parla
di circa un milione e mezzo – erano lavoratori immigrati in Libia e molte di esse
sono scappate in Egitto o verso Sud o verso Ovest. Una volta arrivate qui in Tunisia,
la maggior parte di loro è stata trattenuta in questi campi per l’identificazione
e si cerca di capire dove possano andare. Quelli che arrivano, soprattutto dal Corno
d’Africa, non potendo tornare nelle loro nazioni di origine per via dell’instabilità
di questi posti, restano bloccati qui, in attesa che venga riconosciuto loro lo status
di rifugiati e possano recarsi in una nazione disponibile ad accoglierli. Tutto questo
processo, per alcuni di loro, sta durando mesi, e questo rende la loro vita molto
dura, molto precaria, basti pensare al cibo o alle condizioni sanitarie.
D.
- Come aiutare concretamente queste persone?
R. - Si sta cercando di
fare pressione, perché tutto il procedimento burocratico possa essere velocizzato.
La seconda linea su cui si potrebbe muovere tutta la comunità internazionale è rendere
accessibili i propri territori a questo gruppo di persone. L’Italia, da sola, potrebbe
accogliere queste tre mila persone. Figuriamoci se consideriamo l’Europa o l’Occidente.
Si tratta di persone che hanno degli studi alle spalle, una grandissima competenza
professionale, molti di loro, in Libia, lavoravano nelle aziende, erano professionisti,
per cui potrebbero addirittura essere una risorsa per l’Occidente.
D.
- Rispetto agli aiuti umanitari, qual è il contributo della Caritas?
R.
- La Caritas offre un sostegno per fornire i medicinali, ma anche un apporto psicologico.
Si fanno dei corsi d’inglese, di francese, alcuni anche d’italiano.
D.
- Cosa raccontano i profughi delle condizioni di vita che ci sono ora, in Libia?
R.
- La maggior parte di loro è scappata dopo l’inizio dei primi bombardamenti, perché
ha preso luogo una situazione di grandissima anarchia: tutti sono armati, c’è il rischio
di essere in ogni momento assaltati, derubati o anche uccisi.
D. - Quali
alternative hanno al rientro in Libia?
R. - Tornare in Libia e cercare
di prendere un barcone verso l’Italia. Rischiare la vita per sperare, un domani, di
vivere. Oppure aspettare, qui, di essere accolti, un domani, in Ghana, negli Stati
Uniti, oppure rischiare la vita e attraversare tutta l’Africa per tornare in Somalia,
dove c’è comunque la guerra, la siccità e la gente sta scappando. Stiamo veramente
toccando il fondo dell’umanità. (vv)