''Aveva scelto la professione militare per dedicarsi ai più deboli, a coloro che non
hanno nessun valore agli occhi del mondo''. Con queste parole ieri, a Roma, l’arcivescovo
Vincenzo Pelvi, ordinario militare per l’Italia, ha ricordato il primo caporal maggiore
Roberto Marchini, durante i funerali del soldato nella Basilica di Santa Maria degli
Angeli. Il geniere-paracadutista dell'ottavo reggimento Folgore di Legnago è morto
nei giorni scorsi in Afghanistan per l'esplosione di un ordigno nel distretto di Bakwa.
Quello che ha colpito il contingente italiano non è stato l’ultimo attentato nel Paese
asiatico. Cinque civili sono morti nelle ultime ore nella provincia di Helmand, quando
un pulmino è saltato in aria per una bomba. Sul terreno, intanto, è iniziato il graduale
disimpegno degli Stati Uniti dall’Afghanistan. Il primo contingente, di circa 650
soldati americani, ha infatti cominciato le operazioni di rientro in patria. Secondo
il presidente statunitense Obama, il calendario di ritiro - che prevede la conclusione
della missione nel 2014 - verrà rispettato a patto che la situazione sul campo non
cambi. Eppure si susseguono gli attacchi. Ce ne parla il prof. Marco Lombardi,
responsabile dei Progetti educativi in Afghanistan dell’Università Cattolica del Sacro
Cuore di Milano, intervistato da Giada Aquilino:
R. – Stiamo
vedendo due cose: da una parte, gli Stati Uniti che cominciano ad andarsene, gli italiani
che hanno detto che lo faranno e i francesi che hanno confermato il ritiro dal 2012;
dall’altra parte, militari morti e il fratello del presidente Karzai eliminato anch’egli.
Quindi, possiamo aspettarci sicuramente una recrudescenza della violenza degli “insurgents”
nei confronti delle truppe. C’è da dire poi che il fatto di forzare l’uscita dei militari
spesso dipende da ragioni di politica interna, che non riguardano – in realtà – il
teatro di guerra, e può essere vantaggioso per gli stessi insorti. In realtà, in questi
dieci anni si è fatto tanto ma ancora non abbastanza. Gli interventi nella costruzione
di scuole, case e ponti sono ottimi ma se non si riuscirà a lasciare il Paese con
una polizia ed un esercito che funzionino o con un governo un po’ meno corrotto, se
insomma non cambieremo queste cose in realtà sia gli edifici costruiti, sia i morti
che abbiamo subito serviranno purtroppo a poco.
D. – Ma l’aumento degli
attentati cosa vuole significare? Che i talebani e in generale la ribellione vogliono
riguadagnare il controllo totale del territorio?
R. – In realtà, gli
“insurgents” sanno che se le truppe internazionali non riescono a conquistare le montagne
e le valli dell’Afghanistan – e questo, come dicono gli americani, attraverso i cuori
dei valligiani, di coloro che vivono fuori dalle grandi città – loro hanno già vinto.
D.
– Tra attentati, scontri e danni collaterali, il conflitto in Afghanistan ha fatto
registrare nei primi sei mesi di quest’anno una cifra record di oltre 1.400 civili
uccisi. Cosa c’è da attendersi?
R. – E’ l’ultima battaglia, quella per
la quale gli “insurgents” faranno di tutto e di più. E’ vero che sono una minoranza
dal punto di vista quantitativo, ma saranno anche quelli che faranno più baccano –
e in questo caso con gli AK47 e con gli Ied (Improvised Explosive Devices) – attorno
alle grandi città in Afghanistan. Ogni luogo di assembramento, ogni venerdì potrà
essere occasione…
D. – Questi dieci anni di conflitto cosa lasciano
al Paese?
R. – Lasciano la possibilità di vedere che c’è un’altra vita,
che è possibile vivere meglio, è possibile avere madri che siano buone madri e che
abbiano un’educazione, che abbiano coscienza di sé e che insieme agli uomini lavorino
per il loro Paese. Ed è quello che gli afghani capiscono e comprendono, tranne quella
piccola minoranzadi “insusrgents” che, appunto, costringe gli altri afghani
a lavorare per loro. (gf)