2011-07-15 14:44:04

Afghanistan: inizia il ritiro delle truppe Usa


''Aveva scelto la professione militare per dedicarsi ai più deboli, a coloro che non hanno nessun valore agli occhi del mondo''. Con queste parole ieri, a Roma, l’arcivescovo Vincenzo Pelvi, ordinario militare per l’Italia, ha ricordato il primo caporal maggiore Roberto Marchini, durante i funerali del soldato nella Basilica di Santa Maria degli Angeli. Il geniere-paracadutista dell'ottavo reggimento Folgore di Legnago è morto nei giorni scorsi in Afghanistan per l'esplosione di un ordigno nel distretto di Bakwa. Quello che ha colpito il contingente italiano non è stato l’ultimo attentato nel Paese asiatico. Cinque civili sono morti nelle ultime ore nella provincia di Helmand, quando un pulmino è saltato in aria per una bomba. Sul terreno, intanto, è iniziato il graduale disimpegno degli Stati Uniti dall’Afghanistan. Il primo contingente, di circa 650 soldati americani, ha infatti cominciato le operazioni di rientro in patria. Secondo il presidente statunitense Obama, il calendario di ritiro - che prevede la conclusione della missione nel 2014 - verrà rispettato a patto che la situazione sul campo non cambi. Eppure si susseguono gli attacchi. Ce ne parla il prof. Marco Lombardi, responsabile dei Progetti educativi in Afghanistan dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, intervistato da Giada Aquilino:RealAudioMP3

R. – Stiamo vedendo due cose: da una parte, gli Stati Uniti che cominciano ad andarsene, gli italiani che hanno detto che lo faranno e i francesi che hanno confermato il ritiro dal 2012; dall’altra parte, militari morti e il fratello del presidente Karzai eliminato anch’egli. Quindi, possiamo aspettarci sicuramente una recrudescenza della violenza degli “insurgents” nei confronti delle truppe. C’è da dire poi che il fatto di forzare l’uscita dei militari spesso dipende da ragioni di politica interna, che non riguardano – in realtà – il teatro di guerra, e può essere vantaggioso per gli stessi insorti. In realtà, in questi dieci anni si è fatto tanto ma ancora non abbastanza. Gli interventi nella costruzione di scuole, case e ponti sono ottimi ma se non si riuscirà a lasciare il Paese con una polizia ed un esercito che funzionino o con un governo un po’ meno corrotto, se insomma non cambieremo queste cose in realtà sia gli edifici costruiti, sia i morti che abbiamo subito serviranno purtroppo a poco.

D. – Ma l’aumento degli attentati cosa vuole significare? Che i talebani e in generale la ribellione vogliono riguadagnare il controllo totale del territorio?

R. – In realtà, gli “insurgents” sanno che se le truppe internazionali non riescono a conquistare le montagne e le valli dell’Afghanistan – e questo, come dicono gli americani, attraverso i cuori dei valligiani, di coloro che vivono fuori dalle grandi città – loro hanno già vinto.

D. – Tra attentati, scontri e danni collaterali, il conflitto in Afghanistan ha fatto registrare nei primi sei mesi di quest’anno una cifra record di oltre 1.400 civili uccisi. Cosa c’è da attendersi?

R. – E’ l’ultima battaglia, quella per la quale gli “insurgents” faranno di tutto e di più. E’ vero che sono una minoranza dal punto di vista quantitativo, ma saranno anche quelli che faranno più baccano – e in questo caso con gli AK47 e con gli Ied (Improvised Explosive Devices) – attorno alle grandi città in Afghanistan. Ogni luogo di assembramento, ogni venerdì potrà essere occasione…

D. – Questi dieci anni di conflitto cosa lasciano al Paese?

R. – Lasciano la possibilità di vedere che c’è un’altra vita, che è possibile vivere meglio, è possibile avere madri che siano buone madri e che abbiano un’educazione, che abbiano coscienza di sé e che insieme agli uomini lavorino per il loro Paese. Ed è quello che gli afghani capiscono e comprendono, tranne quella piccola minoranza di “insusrgents” che, appunto, costringe gli altri afghani a lavorare per loro. (gf)







All the contents on this site are copyrighted ©.