Conclusa la Settimana di formazione della Cei per i divorziati risposati. Intervista
con don Paolo Gentili
Si è chiusa ieri a Salsomaggiore, in provincia di Parma, la settimana di formazione
“Luci di speranza per la famiglia ferita”, organizzata dalla Conferenza episcopale
italiana (Cei). Per la prima volta, sacerdoti, animatori della pastorale familiare
delle diocesi e delle associazioni familiari hanno discusso, insieme con esperti e
specialisti, della situazione delle persone separate e dei divorziati risposati all’interno
della Chiesa. Un’importante iniziativa che ha avuto molto successo e che sicuramente
sarà ripetuta, spiega donPaolo Gentili, direttore dell’Ufficio Nazionale
per la Pastorale della Famiglia della Cei, al microfono di Federico Piana:
R. - Si è
parlato soprattutto di riannunciare con chiarezza l’indissolubilità del matrimonio
perché lì, per le persone che hanno acquisito una nuova unione, si pone tutta la questione
di non poter accedere ai Sacramenti. Un fatto al quale si lega per molti l'esperienza
di un grande dolore e che è però una verità da annunciare. Ma si è parlato anche della
carità pastorale da vivere: dell’accoglienza da parte della comunità cristiana che
guarda a questa sua parte dolorante del corpo ecclesiale con particolare attenzione,
con particolare cura.
D. - Lei ha detto si tratta come credenti di
cambiare il nostro sguardo?
R. – Sì, perché nella cultura nella quale
viviamo – che pone, come diceva Benedetto XVI, una sorta di dittatura del relativismo
etico per cui sembra che ogni individuo abbia il suo punto di riferimento e non esista
l’unica verità, che per noi invece è Cristo crocifisso e risorto – in questo contesto
culturale questa questione sta diventando ancora più importante da accompagnare. Crediamo,
quindi, che in realtà ogni famiglia che vive la separazione è solo la punta di un
iceberg: cioè mostra chiaramente la fatica di amare, la difficoltà di amare che c’è
nel cuore di ogni uomo e di ogni donna. Oggi, non c’è una coppia di sposi della quale
potremmo veramente garantire a pieno che ci sia una fedeltà per tutta la vita, anche
se noi lo osiamo sperare e ci crediamo fermamente. Ma tutto questo va aiutato e sostenuto
dalla comunità cristiana con interventi concreti, occorrono anche politiche famigliari
che sostengano la famiglia. In tutto questo, la comunità può dare un volto profetico.
D.
– Concretamente, don Paolo, la Chiesa cosa può fare? Qual è la pastorale che può mettere
in campo in questo caso?
R. – Noi abbiamo parlato anche di coppie “angelo”:
cioè, di coppie che magari avendo superato delle difficoltà delle crisi – e quindi
vivendo loro per primi la fatica di dover ogni giorno ricostruire la propria vita
sponsale – possano farsi compagni di viaggio di altre con una formazione adeguata;
formazione adeguata alla quale sono chiamati anche i sacerdoti. Oggi non è più possibile
affrontare con improvvisazioni questi argomenti così difficili e non è più possibile
tenersi distanti dalle famiglie separate che chiedono, pur nella difficoltà di vivere
le indicazioni del Magistero, di essere accolte. Allora, non si tratta solo di dare
indicazioni: si tratta di farsi compagni di viaggio. Abbiamo pensato a quattro tappe:
accogliere, che è il primo volto della Chiesa; discernere, perché le situazioni sono
molto diverse; accompagnare, cioè farsi compagni di viaggio sulla via di Emmaus e
infine educare, cioè mostrare l’orizzonte della vita buona. Anche per la samaritana
che era una che aveva vissuto nel Vangelo esperienze di fallimenti matrimoniali c’è
stata la possibilità di una vita buona. La vita buona non è fare le cose nel “fai-da-te”,
non è l’autonomia: è il rientrare dentro le braccia della Chiesa e delle indicazioni
sapienti del Magistero.(bf)