Via Francigena: sei detenuti in pellegrinaggio fino a Roma
Per la prima volta in Italia, sulla scorta di quanto succede in altri Paesi come Belgio
e Spagna, un piccolo gruppo di detenuti ha compiuto un’esperienza di pellegrinaggio:
un cammino sulla via Francigena di oltre 168 chilometri, da Radicofani, in provincia
di Siena, fino a Roma. L’iniziativa, conclusasi sabato scorso, è nata dalla collaborazione
tra la Confraternita di San Jacopo di Compostella, il penitenziario romano di Rebibbia
e il Tribunale di sorveglianza di Roma. Si è trattato di un’esperienza straordinaria,
come sottolinea, al microfono di Amedeo Lomonaco, il rettore della Confraternita,
il prof. Paolo Caucci von Saucker:
R. – Per
circa nove giorni abbiamo camminato insieme, siamo stati insieme, abbiamo dormito
negli stessi luoghi e abbiamo condiviso le difficoltà del cammino e quindi loro si
sono realmente sentiti riaccolti dalla società.
D. – I detenuti dunque
sono diventati autentici pellegrini?
R. – Hanno partecipato a tutti
i riti di un pellegrinaggio: dalla Messa alle soste nelle chiese, all’incontro con
le comunità religiose lungo il cammino.
D. – E la meta del pellegrinaggio
lungo la via Francigena è stata la città di Roma?
R. - Si è concluso
a San Pietro sabato 11 giugno e hanno ricevuto il Testimonium che è il documento che
la Basilica di San Pietro dà a coloro che hanno compiuto il pellegrinaggio con spirito
di fede. Questo li ha emozionati moltissimo e hanno detto: "La Chiesa ci riconosce
come pellegrini". Questo documento, che già tutti vogliono incorniciare e tenere nelle
proprie celle, 'li ha fatti' pellegrini. Io penso sia stata una bellissima esperienza
per tutti.
D. – Un’esperienza straordinaria non solo per i detenuti...
R.
– Un’esperienza anche per noi, di arricchimento enorme: vedere queste persone che
escono dal carcere, qualcuno per la prima, vederli affrontare con questa determinazione
un percorso, è un’altra prova di volontà della quale hanno assolutamente bisogno.
Sono qualità che loro devono esercitare per reinserirsi quando usciranno.
D.
– Tra l’altro, i detenuti hanno utilizzato dei permessi per partecipare al pellegrinaggio?
R.
- Su circa 300 reclusi che stanno a Rebibbia ne sono stati scelti sei. Hanno utilizzato
dei permessi. Hanno sacrificato alcuni giorni che potevano dedicare all’incontro con
le proprie famiglie, che poi sono pochi durante l’anno, a questa esperienza. Qualcuno
aveva delle pene pesanti. Un detenuto usciva per la prima volta, stava in carcere
da 17 anni.
D. – Cosa ha lasciato questa esperienza nei detenuti?
R.
– Sono tornati in carcere a Rebibbia con le lacrime agli occhi e hanno detto che vogliono
continuare a stare in contatto con noi e che quando terminerà la reclusione, vorranno
ripetere questa esperienza.
D. - Perché il pellegrinaggio può rientrare
nell’ambito di un percorso rieducativo?
R. - Anzitutto è un percorso
che ha una meta, quindi questa è una metafora un po’ anche della vita. Noi ne parlavamo
in questi giorni con questi reclusi e dicevamo loro: voi dovete avere una meta, quella
di reinserivi nella società, quella di fare una famiglia, o di ricostruirla, o di
trovare un lavoro. Devono pensare che il pellegrinaggio, passo dopo passo, è come
la vita: deve essere orientato da un obiettivo. Questo abbiamo cercato di farglielo
capire ed è stato un contatto continuo con loro durato dalla mattina alla sera. Penso
che il pellegrinaggio sia uno strumento molto utile per mettere a contatto due realtà
della società, una libera e una reclusa. E non è l'esperienza, ad esempio, di un educatore
che durante la settimana ha tre ore di colloquio e di contatto con loro. Con il pellegrinaggio
c’è proprio un’immersione completa, c’è una condivisone totale.(bf)