Tensione e caos in Somalia dopo l'uccisione del ministro dell'Interno
Stato di allerta per le forze di peacekeeper africane in Somalia dopo l’assassinio
del ministro dell’Interno del governo di transizione, Abdi Shakur Sheikh Hassan. Un
portavoce della missione militare dell’Unione Africana ha, infatti, rivelato il timore
di una controffensiva degli al Shabaab dopo le recenti disfatte subite. Ormai da decenni
la Somalia si ritrova senza un governo centrale, mentre l’esecutivo provvisorio non
riesce a trovare un accordo per arrivare a nuove elezioni. In questo quadro s’innesta
inoltre una delle più gravi catastrofi umanitarie del continente africano. A Mario
Raffaelli, presidente di Amref ed esperto della crisi somala, Stefano Leszczynski
ha chiesto come si possa fotografare la situazione della Somalia.
R. – E’ una
stagione difficilissima perché mentre da una parte ci sono questi avvenimenti che
sono tipici quando gli Shabaab subiscono sconfitte in campo militare, dall’altra la
cosa grave è che questo sta accadendo mentre continua una situazione di tensione,
di divisione all’interno delle istituzioni somale. Il momento delicato è costituito
dal fatto che sul campo, le forze dell’Amisom sono riuscite a guadagnare terreno e
a conquistare diverse posizioni, in particolare a Mogadiscio che era tenuta dagli
Shabaab; c’è però l’incapacità delle istituzioni somale di assicurare governo e qualità
in queste aree dove sono stati rimossi gli Shabaab, e questo fa sì che il problema
persista e non ci sia nessuna soluzione.
D. – Fino a qualche anno fa
era addirittura impensabile parlare della Somalia come di uno Stato in cui potesse
avere sede un governo, dove qualcuno potesse immaginare di gestire un Paese. Oggi
la situazione è diversa?
R. – No. Secondo me, no. E comunque, non a
sufficienza, nel senso che in realtà, fin dal 2004, e poi con la Conferenza di Nairobi,
nominalmente esistevano un governo e un parlamento somalo. Anzi, prima dell’intervento
etiopico, quando il governo aveva sede prima a Jawhar e poi a Baidoa, pur trovandosi
di fronte a divisioni politiche, non c’era né una situazione di guerra come quella
che si è verificata successivamente, né un disastro umanitario come quello che ormai
dura da anni. Il problema è proprio questo: il fatto che non si riesce a colmare il
divario fra l’esistenza di istituzioni formali e una loro reale rappresentatività.
D.
– Assistendo la popolazione e tamponando l’emergenza umanitaria terribile che esiste
in Somalia si potrebbero indebolire le frange più oltranziste e quindi alimentare
invece quelle più moderate?
R. – Io penso di sì. Bisognerebbe dare un
appoggio selettivo, incrementale, a queste aree diverse tra loro: quindi, appoggiare
pienamente il Somaliland, il Puntland, dove esiste una situazione che consente di
avere un rapporto completo e diretto, aree dove ancora queste evoluzioni sono al loro
inizio. Ma, per esempio, offrire anche nelle aree che sono sotto controllo Shabaab
aiuto umanitario purché sia concessa la libera circolazione delle organizzazioni umanitarie.
Agli interventi militari bisogna accompagnare interventi di altra natura: questo,
purtroppo, è il problema di sempre, in Somalia. (bf)