2011-06-11 15:34:59

Tensione e caos in Somalia dopo l'uccisione del ministro dell'Interno


Stato di allerta per le forze di peacekeeper africane in Somalia dopo l’assassinio del ministro dell’Interno del governo di transizione, Abdi Shakur Sheikh Hassan. Un portavoce della missione militare dell’Unione Africana ha, infatti, rivelato il timore di una controffensiva degli al Shabaab dopo le recenti disfatte subite. Ormai da decenni la Somalia si ritrova senza un governo centrale, mentre l’esecutivo provvisorio non riesce a trovare un accordo per arrivare a nuove elezioni. In questo quadro s’innesta inoltre una delle più gravi catastrofi umanitarie del continente africano. A Mario Raffaelli, presidente di Amref ed esperto della crisi somala, Stefano Leszczynski ha chiesto come si possa fotografare la situazione della Somalia.RealAudioMP3

R. – E’ una stagione difficilissima perché mentre da una parte ci sono questi avvenimenti che sono tipici quando gli Shabaab subiscono sconfitte in campo militare, dall’altra la cosa grave è che questo sta accadendo mentre continua una situazione di tensione, di divisione all’interno delle istituzioni somale. Il momento delicato è costituito dal fatto che sul campo, le forze dell’Amisom sono riuscite a guadagnare terreno e a conquistare diverse posizioni, in particolare a Mogadiscio che era tenuta dagli Shabaab; c’è però l’incapacità delle istituzioni somale di assicurare governo e qualità in queste aree dove sono stati rimossi gli Shabaab, e questo fa sì che il problema persista e non ci sia nessuna soluzione.

D. – Fino a qualche anno fa era addirittura impensabile parlare della Somalia come di uno Stato in cui potesse avere sede un governo, dove qualcuno potesse immaginare di gestire un Paese. Oggi la situazione è diversa?

R. – No. Secondo me, no. E comunque, non a sufficienza, nel senso che in realtà, fin dal 2004, e poi con la Conferenza di Nairobi, nominalmente esistevano un governo e un parlamento somalo. Anzi, prima dell’intervento etiopico, quando il governo aveva sede prima a Jawhar e poi a Baidoa, pur trovandosi di fronte a divisioni politiche, non c’era né una situazione di guerra come quella che si è verificata successivamente, né un disastro umanitario come quello che ormai dura da anni. Il problema è proprio questo: il fatto che non si riesce a colmare il divario fra l’esistenza di istituzioni formali e una loro reale rappresentatività.

D. – Assistendo la popolazione e tamponando l’emergenza umanitaria terribile che esiste in Somalia si potrebbero indebolire le frange più oltranziste e quindi alimentare invece quelle più moderate?

R. – Io penso di sì. Bisognerebbe dare un appoggio selettivo, incrementale, a queste aree diverse tra loro: quindi, appoggiare pienamente il Somaliland, il Puntland, dove esiste una situazione che consente di avere un rapporto completo e diretto, aree dove ancora queste evoluzioni sono al loro inizio. Ma, per esempio, offrire anche nelle aree che sono sotto controllo Shabaab aiuto umanitario purché sia concessa la libera circolazione delle organizzazioni umanitarie. Agli interventi militari bisogna accompagnare interventi di altra natura: questo, purtroppo, è il problema di sempre, in Somalia. (bf)







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