Di seguito riportiamo una riflessione di P. BARTHÉLEMY ADOUKONOU, Segretario del
Pontificio Consiglio della Cultura, pubblicata da l'Osservatore Romano.
Nel
dialogo il compito della Chiesa. "Africa terra di fede e di cultura"
Un’azione
storica in grado di affrontare le sfide di un continente come l’Africa presuppone,
per quanto riguarda la Chiesa, l’esistenza di un soggetto ecclesiale profondamente
radicato in una fonte che gli conferisca identità, coscienza e missione. Tutto ciò
è poi subordinato a un’altra capacità: quella della lettura autonoma dei segni dei
tempi. E poiché si tratta, a livello continentale, di una comunione di Chiese particolari,
è necessario che queste ultime siano guidate dalla stessa visione ecclesiologica e
operino in solidarietà pastorale organica. Questa Chiesa dovrà dunque avere una visione,
una missione, assi strategici di azione chiari e un quadro di risultati elaborato
con il concorso di tutti. In questa prospettiva, un evento come il cinquantenario
delle indipendenze africane — che ha coinciso significativamente con il centenario
della nascita di un intellettuale cattolico, Alioune Diop, uomo di cultura senegalese,
fervente sostenitore del dialogo, creatore della Società africana di cultura e della
sua rivista «Présence Africaine» — non poteva svolgersi senza che la Chiesa universale
vi prendesse parte. Così il Pontificio Consiglio della Cultura ha lanciato l’iniziativa
di promuovere la nascita, a partire dalla stessa Chiesa locale africana, di un Forum
fede-cultura-sviluppo. L’Università cattolica di Nairobi, a sua volta, ha tenuto un
importante convegno teologico per commemorare tale evento. Sono segni non trascurabili
del rafforzamento della coscienza storica africana. Com’è noto, la corrente politico-culturale
del panafricanismo e la corrente culturale-letteraria della negritudine sono entrambe
confluite nel conseguimento dell’indipendenza da parte delle nazioni africane. Nel
corso degli ultimi cinquant’anni si è potuto vedere al potere i sostenitori dell’una
come dell’altra tendenza. L’impressione, mettendo da parte qualsiasi «afropessimismo»,
è però che lo sviluppo del continente negli ultimi cinquant’anni sia stato piuttosto
debole, se paragonato per esempio a quello di molti Paesi asiatici. In tale contesto,
e alla luce del sinodo dei vescovi per l’Africa del 2009, il Pontificio Consiglio
della Cultura si è posto la domanda: quale cultura per quale sviluppo? Avrebbe potuto
organizzare un convegno, come aveva già fatto in passato, invitando persone rappresentative
delle conferenze episcopali regionali. Si è pensato, invece, che la cosa migliore
fosse di farne l’occasione per la nascita di un partenariato istituzionale a livello
continentale. Spetterebbe, poi, a quel soggetto ecclesiale africano costituire un
Forum fede-cultura-sviluppo, vista l’importanza d’indicare l’autonomia e il grado
di maturità della coscienza storica della Chiesa in Africa. L’obiettivo di questo
nuovo ente sarebbe lo stesso che persegue il Pontificio Consiglio della Cultura a
livello di Chiesa universale. Nel contesto attuale della globalizzazione, con le sue
minacce di ripiegamenti identitari, ma anche di totalitarismi politici ed economici
mondiali, la questione che tale ente potrebbe e addirittura dovrebbe risolvere insieme
al Pontificio Consiglio sarebbe essenzialmente quella dell’interculturalità. Infatti,
il passaggio da Giovanni Paolo II a Benedetto XVI è avvenuto in un momento in cui
la globalizzazione si è trovata a dover affrontare un gran numero di problemi complessi
e delicati: governo mondiale, migrazione, multiculturalismo, dialogo delle religioni
e, appunto, interculturalità. Fra tutti questi problemi, quello dell’interculturalità
e quello del dialogo delle religioni appaiono legati in modo particolare e meritano
entrambi di essere approfonditi. Se Giovanni Paolo II non ha mai utilizzato il neologismo
«interculturalità», ha però introdotto nel discorso magisteriale il neologismo «inculturazione».
Con la fondazione del Pontificio Consiglio della Cultura, Giovanni Paolo II intendeva,
infatti, far dialogare la fede con la cultura e le culture. Voleva rendere possibile
un’evangelizzazione della cultura e delle culture e allo stesso tempo un’inculturazione
della fede. Mentre le scienze umane e sociali che si occupano di culture le separano
dal riferimento al sacro e a Dio e mentre la filosofia illuministica vorrebbe potersi
accontentare di un deismo vago, Benedetto XVI, dal canto suo, afferma che non c’è
fede senza cultura, né cultura dei popoli storicamente conosciuti senza fondamento
religioso. Di conseguenza non può neppure esistere un’operazione chirurgica con la
quale si potrebbe eliminare la credenza-fede che è alla base di una cultura per sostituirla
con un’altra. Il trapianto così tentato non potrebbe che provocare la morte. In realtà,
ogni cultura proviene dalla fede di cui vive un soggetto comunitario, un popolo. Dunque,
è un soggetto ecclesiale radicato nella fede e che vive di essa a entrare in contatto
con un altro soggetto comunitario concreto — popolo, nazione — che vive di una fede
o di un’apertura religiosa-spirituale concreta al trascendente. Quindi siamo sempre
già in interculturalità. Il cardinale Joseph Ratzinger in una sua conferenza a
Hong Kong (1993) sembra infatti preferire un altro neologismo, che egli ha introdotto
in teologia: «interculturalità». Constatiamo, tuttavia, che, in quella stessa conferenza
viene utilizzato senza riserve anche il termine «inculturazione» per descrivere l’opera
teologica dei Padri della Chiesa. L’inculturazione presuppone che si entri in
dialogo con l’altra cultura dal più profondo della propria identità credente per essere
in grado di ascoltare l’altro a partire dalla sua più intima verità, dalla sua identità
spirituale-religiosa più profonda. In altre parole, dalla fede che è il fondamento
della sua cultura. Mi sembra che l’energica contestazione da parte del futuro Benedetto
XVI della «dittatura del relativismo» e il concentrarsi della pastorale del Papa sulla
questione della verità, siano indicazioni che permettono di ripensare in modo fondamentale
la duplice questione dell’inculturazione e dell’interculturalità. Giovanni Paolo
II diceva, nella sua definizione dell’inculturazione, che era «come il mistero dell’incarnazione».
Con ciò bisogna intendere che la relazione fra le culture generate dalla fede — quella
della Chiesa come soggetto comunitario credente e quella del popolo evangelizzato
— sarà il processo di conversione seriamente avviato di scambio di valori culturali
come gli idiomi delle due nature, quella umana e quella divina, «senza separazione,
senza mescolanza né confusione», come ha insegnato il concilio di Calcedonia. Anche
senza dover avviare un dibattito teologico approfondito sulla questione dell’inculturazione
e dell’interculturalità, si può comunque cercare d’individuare la linea teologica
di fondo, che permette di comprendere la differenza e la complementarietà di pensiero
dei due Papi. Giovanni Paolo II ha posto il suo pontificato sotto la luce della Redemptor
hominis e ha voluto, nel corso dell’intero suo papato, fare dell’uomo «la prima e
fondamentale via della Chiesa» (n. 14). Il suo cristocentrismo accentua pertanto la
dimensione antropologica del Verbo incarnato. L’abbiamo visto, nel 1980, presso l’Unesco,
fondere la scienza e la cultura nell’antropologia, per rilanciare l’iniziativa educatrice.
L’abbiamo visto, due anni dopo, creare il Pontificio Consiglio della Cultura con la
missione privilegiata dell’inculturazione e dell’evangelizzazione della cultura. Benedetto
XVI, da parte sua, ha posto la sua linea pastorale sotto la luce dell’identità profonda
di Dio a immagine del quale l’uomo è stato creato e che si è rivelata in Gesù Cristo:
Dio è amore, è il Padre di nostro Signore Gesù Cristo. Il cristocentrismo di Benedetto
XVI è dunque teologico trinitario. L’uomo creato a immagine di Dio troverà la sua
verità solo nella profondità teologica del Verbo di Dio incarnato. La verità, che
forgia dall’interno tutte le culture, le fa uscire dal relativismo, le apre le une
alle altre nel rapporto di amore e di comunione, che è la loro verità. È questa verità
ad aprire le culture e a mantenerle, senza violenza, nell’interculturalità, in questa
svolta della civiltà segnata dalla globalizzazione. Inculturazione e inculturalità
si completano. Se l’inculturazione della fede presuppone l’evangelizzazione-conversione
della cultura, essa accede al livello pieno di scambio dei valori, che è un riflesso
della comunicazione degli idiomi, solo se si mette in atto una cristologia trinitaria,
che generi un’interculturalità pacificata. È urgente per la Chiesa entrare pienamente
in questa nuova era d’interculturalità e di dialogo delle confessioni di fede per
la pace del mondo e per la libera circolazione dei valori positivi di tutte le culture
e le religioni. La Chiesa sarebbe allora in grado di aiutare le nazioni a uscire dal
semplice multiculturalismo, sempre minacciato dalla violenza, contro la quale, purtroppo,
né l’appello alla tolleranza né la cultura della tolleranza possono far granché. Nella
nascita in Africa di un Forum fede-cultura-sviluppo il Pontificio Consiglio della
Cultura vede la promessa di un immenso laboratorio di interculturalità che sarà la
madia di una coscienza storica allo stesso tempo più affinata e più resistente per
lo sviluppo integrale di ogni uomo e di tutto l’uomo.