Migliorano le condizioni dei sei caschi blu italiani feriti in Libano
Sono in via di miglioramento le condizioni dei sei militari italiani della Forza di
Interposizione delle Nazioni Unite in Libano (Unifil), rimasti feriti ieri pomeriggio
in seguito all’esplosione di un ordigno nascosto sul ciglio della superstrada per
Sindone. Secondo quanto riferito dallo Stato maggiore italiano della Difesa, due soldati
sono gravi ma non sarebbero in pericolo di vita. Come spiegare questo agguato in Libano,
tre anni dopo l’ultimo attacco che ha coinvolto militari dell’Onu? Amedeo Lomonaco
lo ha chiesto a Salim Ghostine, giornalista libanese della nostra emittente:
R. - La stampa
libanese e la stampa araba sono concordi nel valutare che si tratta di un messaggio
inequivocabile, indirizzato agli europei. L’attentato di per sé, però, bisogna contestualizzarlo,
perché avviene in un contesto politico molto particolare: il Libano è, infatti, senza
governo da quattro mesi. E’ un vuoto politico che si è complicato negli ultimi giorni
con un fatto molto grave: il centro di ascolto di tutte le telefonate internazionali
è stato causa di una lotta tra forze politiche filo-sunnite e quelle sciite. Questo
centro di ascolto era in mano alle forze di sicurezza libanesi, comandate da un ufficiale
sunnita. Ed in Libano c’è una rete di telefonia autonoma - separata dalla rete nazionale
- che è in mano agli sciiti. Una situazione politica complicata anche per via del
terremoto che c’è tutto intorno al Libano: quello che succede in Siria, in Egitto,
in Tunisia, in Libia… Intanto, l’economia va a pezzi, perché ormai il debito estero
del Libano supera il Pil e, dunque, le prospettive non sono rosee, né economicamente
né politicamente. E sul piano militare e della sicurezza, i fatti sono sotto gli occhi
di tutti…
D. - Dunque quest’attacco è un messaggio indirizzato da ‘qualcuno’
all’Europa: alcuni puntano il dito verso l’intelligence di Damasco, interessata a
spostare l’attenzione mediatica dalla Siria, mentre altri verso gruppi di miliziani
sunniti palestinesi legati ad al Qaeda. Anche se non è chiaro il mandante, sembra
comunque certo l’obiettivo: destabilizzare il Paese…
R. - Il Libano
è il punto debole in Medio Oriente, è il punto nevralgico nel quale si concretizza
tutta la problematica internazionale. E’ chiaro che leggendo solo gli avvenimenti
libanesi, non si può spiegare perché tutto questo stia accadendo. C’è un messaggio
inviato all’Europa, ma un messaggio inviato da chi? Questo è l’interrogativo… E poi
il messaggio cosa vuole? Il Libano è stato sempre al centro di lotte: i grandi elettori
in Medio Oriente sono Arabia Saudita ed Egitto per il potere sunnita; l’Iran e la
Siria per il fronte sciita; i palestinesi che ora sono - perché prima era spaccato
- un fronte unito; Israele è chiaramente un grande elettore… Ora che succederà? Certo
è chiaro che la posta in gioco è molto più del Libano.
D. - Il Libano
è segnato dalla crisi economica, dalla crisi politica. Il vento della “primavera araba”,
già arrivato in diversi Stati, sta soffiando anche in Libano?
R. - Si
è manifestato un fenomeno molto interessante, perché il Libano è governato da un sistema
politico che è noto come il confessionalismo: le cariche dello Stato sono ripartite
secondo l’appartenenza religiosa. Dunque, essendo un Paese di 17 comunità, ogni comunità
ha diritto ad alcune cariche dello Stato proprio per tutelarsi: una formula per lottare
contro la democrazia del numero, in base alla quale chi vince prende tutto, e quindi
per dare voce in capitolo a tutti. Ma questo alla fine ha fatto sì che le competenze
venissero tagliate fuori e venisse data la precedenza all’appartenenza confessionale
o politica. Il fenomeno interessante, cominciato un anno fa, è rappresentato da un
movimento di giovani, che si chiama “No al confessionalismo”. Questi giovani vogliono
uno Stato basato sulla meritocrazia, la governance… Ma certo non è così semplice,
perché in base alla democrazia del numero, essendo gli sciiti oggi i più numerosi
in Libano, dovrebbero essere proprio gli sciiti o l’Iran a dettare le future scelte
politiche del Paese. (mg)
Subito dopo aver appreso la notizia, il presidente
della Repubblica italiana, Giorgio Napolitano, ha ribadito che il contingente dell’Unifil
è dispiegato in Libano per una missione di pace. Sullo scenario geopolitico, che fa
da cornice a questo nuovo attacco, si sofferma al microfono di Debora Donnini
il presidente del Centro Alti Studi per la lotta al terrorismo e alla violenza politica,
Maurizio Calvi:
R. – Non
bisogna dimenticare che alcuni giorni fa c’era stata la pressione dei profughi palestinesi
in Libano, che avevano tentato una prima penetrazione nel territorio israeliano, quindi
ci stono state fortissime tensioni in quell’area. Aggiungiamo che il Libano – ovviamente
– ha subito sempre un’influenza politicamente forte da parte della Siria, anche se
oggi Assad si trova in grande difficoltà e quindi pensa più agli affari interni. Non
bisogna dimenticare poi le affermazioni della parte più radicale libanese contro Israele;
così come non bisogna dimenticare il discorso del primo ministro israeliano sull’assetto
dei confini del 1967 e quindi con la riconferma che, da parte israeliana, non c’è
nessuna possibile trattativa in questa direzione. Quindi ci sono molti fattori che
possono aver inciso.
D. – Per ora non ci sono rivendicazioni di nessun
tipo, ma questo attacco ha a che fare anche con l’appoggio del movimento integralista
libanese di Hezbollah al regime del presidente siriano Assad nel contesto delle proteste?
R.
– Non vi è dubbio che anche questa parte interna può provocare come dei semi di incertezze
politiche. Il Libano è un coacervo di pressioni interne ed esterne, che possono mettere
in discussione la stabilità che fino ad ora ha mantenuto. Rispetto a tutti i territori
del Nord Africa, compresa ovviamente la Siria. C’è, quindi, un processo di instabilità
che – a mio avviso – comincia a manifestarsi anche in Libano. (mg)