Festival di Cannes: dieci minuti di applausi per Paolo Sorrentino
A un giorno dalla conclusione del Festival di Cannes, si possono tirare le somme e
non sono sicuramente entusiasmanti per quello che viene considerato a giusto titolo
il più importante avvenimento cinematografico del mondo. A fronte della presenza di
qualche bel film, il programma della competizione ufficiale, nonostante le buone premesse
e i grandi nomi, ha un po’ deluso. Se qualcosa di buono è lecito attendersi da “La
source des femmes” di Radu Mihaileanu in programma questa sera, in queste ultime battute
i grandi film latitano. Con “La piel que abito”, Pedro Almodovar mette insieme i pezzi
delle sue personali ossessioni, gli spunti di una cinefilia mal digerita e il consueto
spirito iconoclasta, per raccontare la storia di un chirurgo plastico in preda alla
follia e quella di una sua vittima, un giovane trasformato in donna per soddisfare
la sua sete di vendetta. Il film rinvia a un autore classico come Franju, alle atmosfere
del genere horror e all’attrazione verso la femminilità del regista spagnolo, ma lo
fa senza quella necessaria distanza che caratterizzava i film di qualche anno fa,
dove la malinconia del mélo e l’umorismo della commedia si fondevano in maniera quasi
perfetta. Anche “Drive” di Nicolas Winding Refn, storia di un geniale pilota alle
prese col sottobosco criminale di Los Angeles, pur rivelando le buone potenzialità
espressive del suo regista, si riduce a un film di genere, dove il numero spettacolare
dell’inseguimento automobilistico si alterna allo splatter dei corpi massacrati e
i buchi di sceneggiatura non sono compensati dalla brillantezza della messa in scena.
In tal senso molto meglio si rivelano “Ichimei” di Takashi Miike e “This must be the
place” di Paolo Sorrentino. Il regista giapponese, autore di culto fra i cinefili
dell’ultima generazione per i suoi film estremi, allo stesso tempo violentissimi e
astratti, prende tutti in contropiede con un lavoro di grande rigore formale. Al centro
del film una storia di samurai poveri, che in tempo di pace non sanno più cosa farsene
dell’abilità guerriera. Costretti a mendicare, per non perdere onore e rispetto, s’inventano
la pantomima del suicidio rituale, che consiste nel chiedere a un feudatario di potere
fare harakiri per sfuggire alla loro condizione. Di solito i signori s’impietosiscono
e loro ne ricavano qualche moneta che gli permette di sopravvivere senza perdere la
faccia. Ma la cosa diventa un’abitudine e ben presto i potenti si stancano del gioco.
Così quando un giovane sprovveduto con moglie e figlio malati, cerca di ricorrere
allo stesso artificio, egli è costretto davvero ad uccidersi. Rispettoso dell’iconografia
tradizionale, dalla pittura alle architetture in cui si svolge l’azione, Takashi applica
allo spirito della tradizione e del genere quella furia distruttiva che abitualmente
esercita sui corpi dei suoi protagonisti; e, così facendo, rende cosciente lo spettatore
della vuota retorica del potere. Se Takashi affascina e costerna, Sorrentino coinvolge
tutti con una strana storia di formazione. Ne è protagonista una vecchia rockstar
col fisico intaccato dagli abusi di droghe e lo spirito fiaccato dal senso di colpa.
Un tempo fu giovane e ribelle, in continua lotta contro il mondo. Oggi, ricco e solitario,
vive osservando la gente da lontano. Ma poi il mondo lo richiama a sé, costringendolo
a un confronto con la figura del padre, con le sue origini, con la sua storia. Dalla
verde Irlanda prende così il via un lungo viaggio sulla strada, attraverso l’America,
in compagnia di personaggi bizzarri e della musica dei Talking Heads che dà il titolo
al film. Sorrentino vi conferma tutto il bene che si dice di lui: perfetto controllo
della messa in scena, empatia coi personaggi, battute sorprendenti e una sorta di
energia benevola che trascina tutti, personaggi e spettatori, sulle strade del mondo.
(Da Cannes, Luciano Barisone)