2011-05-18 13:16:49

Coscienza e sviluppo della Chiesa in Africa, di fronte alle sfide della globalizzazione


Di seguito riportiamo una riflessione di P. Barthélémy Adoukonou, segretario del Pontificio Consiglio della Cultura, pubblicata su “L’Osservatore Romano” il 16 maggio 2011.

LE SFIDE FUTURE DELLA CHIESA IN AFRICA

Per la Chiesa i limiti della sua coscienza storica derivano dal dimenticare ciò che va al di là della storia e che al tempo stesso le dà la capacità di affrontare le sfide grazie a un agire pastorale pertinente. In questo senso, molti africani tergiversano sul passato dell’«Uomo nero> per paura di essere accusati di razzismo. Preferiscono quasi restare «oggetto» della storia piuttosto che divenirne il «soggetto».
Il beato Giovanni Paolo II ha fatto per quattro volte un appello agli africani affinché non si accontentassero di una semplice assunzione della loro cultura, ma s’impegnassero anche a riprendere l’iniziativa storica. Ciò può avvenire solo se l’africano accetta di ritornare sui suoi incontri mancati, perché brutali, con l’altro, dominatore e mercante. Il primo appello è stato all’Unesco quando, nel 1980, il Papa ha invitato i rappresentanti delle nazioni non occidentali a rispondere delle loro culture, rendendo la loro testimonianza di cittadini di una nazione che è stata condannata a morte in diverse occasioni dai suoi vicini più diretti, ma che deve la sua salvezza proprio alla sua cultura. La seconda volta è stata a Yaoundé, nel 1985, quando ha chiesto perdono agli africani a nome dell’Europa per il colonialismo e la schiavitù. La terza volta è stata a Gorea, nel 1992, quando ha chiesto perdono a Dio a nome dell’umanità per il magnum scelus (crimine enorme) per quell’«olocausto sconosciuto» che fu la tratta dei neri. La quarta volta è stata nel suo libro Varcare la soglia della speranza dove paragona la tratta dei neri e la schiavitù all’olocausto. Utilizza esplicitamente l’espressione «olocausto nero».
Giovanni Paolo II, definendo il dramma della «tratta dei neri» come «olocausto nero», in realtà c’invita a sviluppare una teologia della redenzione. È questo tipo di teologia della missione d’evangelizzazione dell’Africa che egli inaugura nella prima parte dell’esortazione apostolica post-sinodale Ecclesia in Africa, quando presenta l’Africa come lo sconosciuto caduto in mano ai briganti e lasciato sulla via di Gerico perché ritenuto morto, che attende il suo Buon samaritano. La storia missionaria dell’Africa è fondamentalmente la storia del Buon samaritano che ha globalizzato la solidarietà, operando la rivoluzione del prossimo. Il «missionario», quali che siano state le vicissitudini storiche di una natura umana debole, non ha assolutamente niente in comune con il «militare» e il «mercante». È ingiusto parlare delle tre emme, mettendo il missionario sullo stesso piano del militare e del mercante europeo e arabo mediorientale.
Nel contesto attuale della globalizzazione, la Chiesa in Africa è chiamata a ricevere dalle mani dei nostri padri missionari la fiaccola di una teologia precisa, quella del Buon samaritano, ripensando in modo nuovo la cristologia di Cristo Buon samaritano, Figlio del Padre e Verbo di Dio incarnato. Ci si aspettava, forse, una simile teologia dal secondo Sinodo dei vescovi per l’Africa (2009), ma questa non si era ancora esplicitata, senza dubbio perché pastori e teologi africani non avevano ancora colto appieno l’urgenza d’integrare questa realtà storica. Allora alcuni teologi cattolici africani hanno iniziato a riprendere sottobanco la teologia della felicità e della prosperità facili delle correnti evangeliche provenienti dall’America, in altre parole una teologia della gloria senza croce.
Analoghe considerazioni possono essere svolte per quanto riguarda il rapporto tra la Chiesa e la democrazia in Africa. I Paesi occidentali hanno conquistato la democrazia a viva forza. Alcuni intellettuali si sono prodigati, hanno conosciuto la prigione, altri sono persino morti perché si ottenesse la distinzione storica dei tre poteri, che rappresenta a mio avviso «l’anima» della democrazia. È questa storia dolorosa che ha reso possibile la distinzione dei tre poteri e ne ha fatto un quadro ideale di esistenza politica. Nessun regime politico può permettersi di confondere i tre poteri, senza che i partiti di opposizione lo denuncino, o addirittura che il popolo scenda in strada per ottenere un ritorno immediato alla legalità, se non semplicemente la caduta del Governo stesso.
In Africa, al contrario, i tre poteri si accordano quasi sempre per calpestare i diritti dei popoli, e ciò per mancanza di una coscienza storica, che normalmente proviene da una storia vissuta o da un’educazione profonda della coscienza morale e civile. Tuttavia, l’aver evidenziato questa carenza non vuol dire assolutamente disconoscere il merito delle nostre lotte per l’indipendenza e neppure quello delle conferenze nazionali sovrane che hanno voluto ricondurci alla democrazia. La Chiesa, si sa, vi ha svolto un ruolo importante in molti Paesi. È opportuno anche osservare che dopo il primo Sinodo dei vescovi per l’Africa (1994) che ha lanciato un vibrante appello per la formazione di uomini politici e d’affari santi, il secondo ha insistito nuovamente sull’impegno politico e ha proposto che Julius Nyerere — economista e politico tanzaniano morto nel 1999 — fosse beatificato e fungesse da modello.
Le popolazioni delle nazioni dette emergenti dispongono di uno bagaglio antropologico, etico e religioso al quale la Chiesa dovrebbe poter apportare la luce e la forza della sua dottrina sociale, per contribuire al rapido emergere di un’autentica coscienza civile. La presenza della Chiesa al centro della società civile e dei laici cattolici all’interno del Forum sociale mondiale e della Lega internazionale dei diritti dell’uomo, e di altre organizzazioni internazionali, non dovrebbe essere una presenza indifferente, dove ci si sforza di nascondere la propria identità. Dovrebbe al contrario distinguersi per la sua competenza e per la testimonianza chiara della sua specificità cristiana. È inutile dire quanto siamo lontani da una simile presenza cristiana del laicato cattolico, chiamato nondimeno a santificare dall’interno tutto l’ordine temporale. Se c’è una carenza di coscienza storica, non è proprio a questo livello?
Alla base, inoltre, di tutti i problemi trattati nel corso del secondo Sinodo africano vi è quello della migrazione, che è una ripercussione drammatica sull’Africa del fenomeno della globalizzazione. Se bisogna riconoscere il diritto alla migrazione come un diritto umano fondamentale, perché l’uomo è un essere in movimento alla ricerca della sua patria definitiva, dobbiamo però anche riconoscere che esiste il diritto ad aver una «casa propria», una patria terrena, una nazione, nel senso in cui Giovanni Paolo II ha ricordato all’Unesco nel 1980: «Sono figlio di una nazione». Qui, come in molti altri ambiti vitali, grande è la tentazione di riprendere le problematiche generate dal mondo occidentale. L’assenza, o quanto meno la debole intensità della coscienza storica, spiega questa tendenza. Tuttavia, cercando di pensare a partire da sé, grazie a un’analisi profonda delle cause della migrazione drammatica, addirittura tragica, di una gioventù alla ricerca di lavoro, che preferisce rischiare di morire nel deserto del Sahara o nell’Oceano atlantico piuttosto che restare nel proprio Paese, si capisce che la ragione addotta è tale da interpellarci: i nostri Paesi sono fermi alle soglie dello sviluppo e non organizzano il vasto cantiere del continente per creare posti di lavoro. Cinquant’anni dopo le indipendenze, un’inversione di tendenza è lungi dal prospettarsi: le statistiche sulla «fuga di cervelli» trascendono ogni comprensione. Più di settantamila persone qualificate — secondo dati delle Nazioni Unite — lascerebbero il continente ogni anno alla ricerca di lavoro nei Paesi già materialmente sviluppati.
In tale ottica, riteniamo che questa massiccia migrazione di persone qualificate sia una dimensione del fenomeno migratorio ben più importante e urgente da inquadrare e da risolvere in quanto vera soluzione dell’altra dimensione della migrazione che spaventa tanto il mondo occidentale. Nel cercare di risolvere — fra Chiesa subsahariana di partenza, Chiesa nord-africana di passaggio e Chiesa europea di destinazione — la questione della drammatica migrazione, ci sembra urgente, anzi più che urgente, creare le condizioni per affrontare la sfida della massiccia migrazione di persone qualificate. Questione che riguarda anche il bisogno che oggi ha la Chiesa in Africa di rivedere la formazione superiore. È un dato storico incontestabile, infatti, che in numerose capitali africane il livello di molte università statali, per ragioni diverse, non è soddisfacente. Sono molti gli africani che vorrebbero vedere la Chiesa aprire università, del cui successo sono certi, perché la Chiesa, per prima in passato, ne ha già fatto l’esperienza aprendo e gestendo in modo ammirevole scuole d’insegnamento primario e secondario. Ma per quanto riguarda l’insegnamento superiore, il punto è sapere se per lo sviluppo dell’Africa occorre l’eccellenza di un università semplicemente trasferita dall’Occidente o un’università d’eccellenza riveduta a fondo nella sua funzione socio-economica, socio-culturale ed etico-religiosa. Un semplice trasferimento dell’università occidentale non basta. Può addirittura risultare deleterio, come sta accadendo oggi nelle capitali africane, dove a causa delle carenze delle università statali, si stanno moltiplicando le università canadesi, britanniche, americane. Così non faremmo altro che contribuire ad accrescere l’entità della «fuga di cervelli» già eccessiva, mentre, per lo sviluppo del continente africano, si deve poter contare sulle potenzialità intellettuali e umane degli africani stessi.
Per invertire la tendenza, occorre che sia la Chiesa, che ha inventato l’università in occidente nel medioevo, a iniziare oggi in Africa la sua profonda contestualizzazione. La diaspora africana, che, come si sa, invia tre volte più entrate in Africa di tutti gli investimenti e gli aiuti per lo sviluppo del continente provenienti dai Paesi «sviluppati», dovrebbe essere più sistematicamente interpellata nell’ambito di questa forma di lotta contro la massiccia emigrazione di persone qualificate, che noi suggeriamo quale soglia da varcare per la crescita della coscienza storica. La Chiesa, come soggetto d’iniziativa storica, sarà innovatrice in funzione dell’autonomia della sua lettura dei segni dei tempi e della sua capacità di affrontare i problemi in modo responsabile in un contesto di globalizzazione, debitamente preso in considerazione.







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