Coscienza e sviluppo della Chiesa in Africa, di fronte alle sfide della globalizzazione
Di seguito riportiamo una riflessione di P. Barthélémy Adoukonou, segretario del Pontificio
Consiglio della Cultura, pubblicata su “L’Osservatore Romano” il 16 maggio 2011.
LE
SFIDE FUTURE DELLA CHIESA IN AFRICA
Per la Chiesa i limiti della sua coscienza
storica derivano dal dimenticare ciò che va al di là della storia e che al tempo stesso
le dà la capacità di affrontare le sfide grazie a un agire pastorale pertinente. In
questo senso, molti africani tergiversano sul passato dell’«Uomo nero> per paura di
essere accusati di razzismo. Preferiscono quasi restare «oggetto» della storia piuttosto
che divenirne il «soggetto». Il beato Giovanni Paolo II ha fatto per quattro volte
un appello agli africani affinché non si accontentassero di una semplice assunzione
della loro cultura, ma s’impegnassero anche a riprendere l’iniziativa storica. Ciò
può avvenire solo se l’africano accetta di ritornare sui suoi incontri mancati, perché
brutali, con l’altro, dominatore e mercante. Il primo appello è stato all’Unesco quando,
nel 1980, il Papa ha invitato i rappresentanti delle nazioni non occidentali a rispondere
delle loro culture, rendendo la loro testimonianza di cittadini di una nazione che
è stata condannata a morte in diverse occasioni dai suoi vicini più diretti, ma che
deve la sua salvezza proprio alla sua cultura. La seconda volta è stata a Yaoundé,
nel 1985, quando ha chiesto perdono agli africani a nome dell’Europa per il colonialismo
e la schiavitù. La terza volta è stata a Gorea, nel 1992, quando ha chiesto perdono
a Dio a nome dell’umanità per il magnum scelus (crimine enorme) per quell’«olocausto
sconosciuto» che fu la tratta dei neri. La quarta volta è stata nel suo libro Varcare
la soglia della speranza dove paragona la tratta dei neri e la schiavitù all’olocausto.
Utilizza esplicitamente l’espressione «olocausto nero». Giovanni Paolo II, definendo
il dramma della «tratta dei neri» come «olocausto nero», in realtà c’invita a sviluppare
una teologia della redenzione. È questo tipo di teologia della missione d’evangelizzazione
dell’Africa che egli inaugura nella prima parte dell’esortazione apostolica post-sinodale
Ecclesia in Africa, quando presenta l’Africa come lo sconosciuto caduto in mano ai
briganti e lasciato sulla via di Gerico perché ritenuto morto, che attende il suo
Buon samaritano. La storia missionaria dell’Africa è fondamentalmente la storia del
Buon samaritano che ha globalizzato la solidarietà, operando la rivoluzione del prossimo.
Il «missionario», quali che siano state le vicissitudini storiche di una natura umana
debole, non ha assolutamente niente in comune con il «militare» e il «mercante». È
ingiusto parlare delle tre emme, mettendo il missionario sullo stesso piano del militare
e del mercante europeo e arabo mediorientale. Nel contesto attuale della globalizzazione,
la Chiesa in Africa è chiamata a ricevere dalle mani dei nostri padri missionari la
fiaccola di una teologia precisa, quella del Buon samaritano, ripensando in modo nuovo
la cristologia di Cristo Buon samaritano, Figlio del Padre e Verbo di Dio incarnato.
Ci si aspettava, forse, una simile teologia dal secondo Sinodo dei vescovi per l’Africa
(2009), ma questa non si era ancora esplicitata, senza dubbio perché pastori e teologi
africani non avevano ancora colto appieno l’urgenza d’integrare questa realtà storica.
Allora alcuni teologi cattolici africani hanno iniziato a riprendere sottobanco la
teologia della felicità e della prosperità facili delle correnti evangeliche provenienti
dall’America, in altre parole una teologia della gloria senza croce. Analoghe considerazioni
possono essere svolte per quanto riguarda il rapporto tra la Chiesa e la democrazia
in Africa. I Paesi occidentali hanno conquistato la democrazia a viva forza. Alcuni
intellettuali si sono prodigati, hanno conosciuto la prigione, altri sono persino
morti perché si ottenesse la distinzione storica dei tre poteri, che rappresenta a
mio avviso «l’anima» della democrazia. È questa storia dolorosa che ha reso possibile
la distinzione dei tre poteri e ne ha fatto un quadro ideale di esistenza politica.
Nessun regime politico può permettersi di confondere i tre poteri, senza che i partiti
di opposizione lo denuncino, o addirittura che il popolo scenda in strada per ottenere
un ritorno immediato alla legalità, se non semplicemente la caduta del Governo stesso. In
Africa, al contrario, i tre poteri si accordano quasi sempre per calpestare i diritti
dei popoli, e ciò per mancanza di una coscienza storica, che normalmente proviene
da una storia vissuta o da un’educazione profonda della coscienza morale e civile.
Tuttavia, l’aver evidenziato questa carenza non vuol dire assolutamente disconoscere
il merito delle nostre lotte per l’indipendenza e neppure quello delle conferenze
nazionali sovrane che hanno voluto ricondurci alla democrazia. La Chiesa, si sa, vi
ha svolto un ruolo importante in molti Paesi. È opportuno anche osservare che dopo
il primo Sinodo dei vescovi per l’Africa (1994) che ha lanciato un vibrante appello
per la formazione di uomini politici e d’affari santi, il secondo ha insistito nuovamente
sull’impegno politico e ha proposto che Julius Nyerere — economista e politico tanzaniano
morto nel 1999 — fosse beatificato e fungesse da modello. Le popolazioni delle
nazioni dette emergenti dispongono di uno bagaglio antropologico, etico e religioso
al quale la Chiesa dovrebbe poter apportare la luce e la forza della sua dottrina
sociale, per contribuire al rapido emergere di un’autentica coscienza civile. La presenza
della Chiesa al centro della società civile e dei laici cattolici all’interno del
Forum sociale mondiale e della Lega internazionale dei diritti dell’uomo, e di altre
organizzazioni internazionali, non dovrebbe essere una presenza indifferente, dove
ci si sforza di nascondere la propria identità. Dovrebbe al contrario distinguersi
per la sua competenza e per la testimonianza chiara della sua specificità cristiana.
È inutile dire quanto siamo lontani da una simile presenza cristiana del laicato cattolico,
chiamato nondimeno a santificare dall’interno tutto l’ordine temporale. Se c’è una
carenza di coscienza storica, non è proprio a questo livello? Alla base, inoltre,
di tutti i problemi trattati nel corso del secondo Sinodo africano vi è quello della
migrazione, che è una ripercussione drammatica sull’Africa del fenomeno della globalizzazione.
Se bisogna riconoscere il diritto alla migrazione come un diritto umano fondamentale,
perché l’uomo è un essere in movimento alla ricerca della sua patria definitiva, dobbiamo
però anche riconoscere che esiste il diritto ad aver una «casa propria», una patria
terrena, una nazione, nel senso in cui Giovanni Paolo II ha ricordato all’Unesco nel
1980: «Sono figlio di una nazione». Qui, come in molti altri ambiti vitali, grande
è la tentazione di riprendere le problematiche generate dal mondo occidentale. L’assenza,
o quanto meno la debole intensità della coscienza storica, spiega questa tendenza.
Tuttavia, cercando di pensare a partire da sé, grazie a un’analisi profonda delle
cause della migrazione drammatica, addirittura tragica, di una gioventù alla ricerca
di lavoro, che preferisce rischiare di morire nel deserto del Sahara o nell’Oceano
atlantico piuttosto che restare nel proprio Paese, si capisce che la ragione addotta
è tale da interpellarci: i nostri Paesi sono fermi alle soglie dello sviluppo e non
organizzano il vasto cantiere del continente per creare posti di lavoro. Cinquant’anni
dopo le indipendenze, un’inversione di tendenza è lungi dal prospettarsi: le statistiche
sulla «fuga di cervelli» trascendono ogni comprensione. Più di settantamila persone
qualificate — secondo dati delle Nazioni Unite — lascerebbero il continente ogni anno
alla ricerca di lavoro nei Paesi già materialmente sviluppati. In tale ottica,
riteniamo che questa massiccia migrazione di persone qualificate sia una dimensione
del fenomeno migratorio ben più importante e urgente da inquadrare e da risolvere
in quanto vera soluzione dell’altra dimensione della migrazione che spaventa tanto
il mondo occidentale. Nel cercare di risolvere — fra Chiesa subsahariana di partenza,
Chiesa nord-africana di passaggio e Chiesa europea di destinazione — la questione
della drammatica migrazione, ci sembra urgente, anzi più che urgente, creare le condizioni
per affrontare la sfida della massiccia migrazione di persone qualificate. Questione
che riguarda anche il bisogno che oggi ha la Chiesa in Africa di rivedere la formazione
superiore. È un dato storico incontestabile, infatti, che in numerose capitali africane
il livello di molte università statali, per ragioni diverse, non è soddisfacente.
Sono molti gli africani che vorrebbero vedere la Chiesa aprire università, del cui
successo sono certi, perché la Chiesa, per prima in passato, ne ha già fatto l’esperienza
aprendo e gestendo in modo ammirevole scuole d’insegnamento primario e secondario.
Ma per quanto riguarda l’insegnamento superiore, il punto è sapere se per lo sviluppo
dell’Africa occorre l’eccellenza di un università semplicemente trasferita dall’Occidente
o un’università d’eccellenza riveduta a fondo nella sua funzione socio-economica,
socio-culturale ed etico-religiosa. Un semplice trasferimento dell’università occidentale
non basta. Può addirittura risultare deleterio, come sta accadendo oggi nelle capitali
africane, dove a causa delle carenze delle università statali, si stanno moltiplicando
le università canadesi, britanniche, americane. Così non faremmo altro che contribuire
ad accrescere l’entità della «fuga di cervelli» già eccessiva, mentre, per lo sviluppo
del continente africano, si deve poter contare sulle potenzialità intellettuali e
umane degli africani stessi. Per invertire la tendenza, occorre che sia la Chiesa,
che ha inventato l’università in occidente nel medioevo, a iniziare oggi in Africa
la sua profonda contestualizzazione. La diaspora africana, che, come si sa, invia
tre volte più entrate in Africa di tutti gli investimenti e gli aiuti per lo sviluppo
del continente provenienti dai Paesi «sviluppati», dovrebbe essere più sistematicamente
interpellata nell’ambito di questa forma di lotta contro la massiccia emigrazione
di persone qualificate, che noi suggeriamo quale soglia da varcare per la crescita
della coscienza storica. La Chiesa, come soggetto d’iniziativa storica, sarà innovatrice
in funzione dell’autonomia della sua lettura dei segni dei tempi e della sua capacità
di affrontare i problemi in modo responsabile in un contesto di globalizzazione, debitamente
preso in considerazione.