2011-05-17 14:40:11

Il Festival di Cannes si gioca le sue carte migliori


A pochi giorni dalla sua fine, il Festival di Cannes incomincia a giocare le sue carte migliori. Tuttavia in alcuni casi il desiderio di registi e produttori sembra solo quello di affrontare temi scabrosi, senza quella necessaria distanza che permette una messa in prospettiva e con essa lo svilupparsi del pensiero e dell’emozione. È quanto accade in “Apollonide, souvenirs d’une maison close” di Bertrand Bonello, che già nel titolo contiene soggetto, intenzione e modalità della messa in scena: investigare con malcelata pruderia e sotto l’aspetto di una cronaca quotidiana, il dietro le quinte di un bordello alla fine del XIX secolo. Oppure in “Hors Satan” di Bruno Dumont, rigorosa e brutale messa in scena di una marginalità sociale contemporanea, in cui atti e pensieri degli esseri umani sono ad uno stadio primario, feroce, come se il mondo fosse regolato solo da una dinamica deterministica, senza quei fondamentali strumenti che sono la coscienza e il libero arbitrio. Fortunatamente alcuni film della selezione ufficiale si staccano da questa tendenza, illustrando situazioni problematiche dell’esistenza in maniera originale e talvolta divertente. È il caso del francese “The Artist” di Michel Hazanavicius, un delizioso balzo all’indietro nel tempo, quando il cinema non aveva bisogno di tante parole per incantare lo spettatore con lo sviluppo di situazioni universali, quali il successo o la disgrazia delle azioni umane e l’amore come unico e vero valore della vita. Al centro del film un attore affermato dei tempi del muto cade in disgrazia all’avvento del sonoro. In parallelo una giovane comparsa che aveva lavorato con lui diventa una star. Come all’epoca d’oro del cinema, il film è un fuoco pirotecnico d’invenzioni e il pubblico si abbandona a emozioni sospese, risate, esclamazioni di meravigliata sorpresa. Ben diversa è invece la ricezione di “Duch, le maitre des forges de l’enfer” di Rithy Panh, forse il film più forte e necessario visto finora al festival. Al centro di questo documentario la figura del direttore del campo di sterminio S21, dove furono scientificamente eliminate decine di migliaia di cambogiani. La grandezza del regista sta tutta nella sua disposizione all’ascolto del protagonista, ritratto nella sua condizione di lucido boia e di fragile essere umano. La domanda che emerge con una forza straordinaria da una tale operazione è: “Come è possibile?”, e sta tutta nella contrapposizione fra l’intelligenza, la cultura e in un certo senso la sensibilità dell’uomo, la sua coscienza della brutale volontà di fare scomparire tutti quelli che in un modo o nell’altro si contrapponevano alla logica del potere e le immagini agghiaccianti degli archivi, che mostrano dirigenti sorridenti e masse umane instancabilmente devote al lavoro. La posizione interrogativa del regista è anche la caratteristica più interessante di “The Tree of Life” di Terrence Malick, che si configura a livello cinematografico come l’equivalente del monologo joyciano di Ulisse. Rappresentazione non lineare di una cronaca familiare condizionata dal rapporto fra un padre autoritario, una madre amorevole e tre fragili figli, il film si condensa nella domanda che da sempre l’uomo rivolge a Dio quando la tragedia lo colpisce e il dolore non si stempera nel ricordo. La morte di una persona cara riporta la macchina da presa di Malick all’indietro nel tempo, nei dettagli di una vita vissuta, quando il mondo era la famiglia, e poi ancora più indietro, alle origini del tempo, quando il mondo fu creato, quando la materia era ancora indefinita e lo spirito non era disceso nelle forme viventi. Il risultato di una tale operazione è destabilizzante per lo spettatore, che esce stordito dal fluire sorprendente delle immagini, ma piano piano il miracolo avviene. Il film cresce nella coscienza e compie il suo vero dovere, quello di connettere chi lo ha visto con la profonda realtà delle cose. (Da Cannes, Luciano Barisone) RealAudioMP3







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