Nuova giornata di sanguinose proteste nello Yemen. I manifestanti, che ieri si sono
scontrati con la polizia soprattutto nella città portuale di al-Hodeida e a Taez,
dove 5 persone avevano perso la vita, hanno continuato oggi a chiedere la fine del
potere ultratrentennale del presidente Ali Abdullah Saleh per una decisa svolta democratica.
Il bilancio odierno delle violenze parla finora di un morto e numerosi feriti per
un totale di quasi 160 vittime dall’inizio delle proteste antiregime. E proprio dallo
Yemen giunge il proclama del capo di al Qaeda nella penisola arabica che ha minacciato
attacchi più intensi e devastanti, per vendicare l'uccisione di Osama Bin Laden. Ma
in che cosa la protesta yemenita si differenzia da quelle dell’area nordafricana?
Giancarlo La Vella ne ha parlato con Paolo Branca, docente di Islamistica
all’Università Cattolica di Milano:
R. – Sicuramente
la Libia e lo Yemen sono molto diversi dalla Tunisia e dall’Egitto anche come composizione
della società, come evoluzione delle istituzioni e per cui l’andamento è notevolmente
diverso. Certo sia la Libia che lo Yemen sono dei Paesi ancora molto arcaici, tribali,
divisi al loro interno. Lo Yemen del Nord e del Sud si sono riunificati nel ’90, ma
si tratta di queste riunificazioni che lasciano – diciamo così - molti scontenti,
perché c’è sempre una parte dominante rispetto ad un’altra; c’è un presidente, che
è a capo del Paese dal 1978: quindi per certi aspetti è sicuramente un desiderio di
cambiamento, che fatica, però, a trovare i canali attraverso i quali esprimersi ed
imprimere una trasformazione graduale del Paese, proprio perché manca ancora una società
civile ed una classe media e prevalgono solidarietà di tipo etnico e tribale.
D.
– Genericamente le proteste chiedono più democrazia, ma con quale spirito l’opposizione
yemenita, e anche l’intero popolo yemenita, guarda quelli che sono gli attuali modelli
di democrazia nel mondo?
R. – Temo che di questi movimenti sappiamo
soprattutto quello che non vogliono: non vogliono più la dittatura; non vogliono più
un capo unico ed un partito unico, che da decenni governa e soprattutto gestisce anche
forme di corruzione e di nepotismo. Le idee su cosa fare dopo sono diversificate,
perché in Yemen ci sono anche degli oppositori di sinistra, oltre ai religiosi. Si
è visto, però, come si siano anche coordinati almeno per quest’obiettivo simbolico
che – come in Egitto, in Tunisia e in Libia – hanno chiesto che almeno cambi la faccia
della persona che ormai da troppo tempo ha in mano tutto.
D. – Rende
più difficili le cose il fatto che - è noto - in Yemen ci sia una intromissione
forte di al Qaeda sul territorio?
R. – Certamente laddove ci sono forti
movimenti di tipo fondamentalista, addirittura gruppi armati eversivi, la transizione
diventa più complicata e si hanno dei grossi punti di domanda su cosa potrà succedere
dopo. Il timore diffuso, a livello internazionale, è che si entri nella spirale di
una guerra civile, senza uscita, come è successo in Somalia… Posso capire l’apprensione
ed anche la prudenza da parte della Comunità internazionale nel fare dei passi: del
resto anche in Libia abbiamo visto che si sono mossi, ma le cose non si sono ancora
risolte e vanno anzi per le lunghe. (mg)