Ieri al Cairo l’accordo di riconciliazione firmato tra Hamas, Fatah e altri gruppi
palestinesi. L’intesa prevede la formazione di un governo provvisorio in vista di
nuove elezioni da tenersi nel giro di un anno. Forti perplessità sull'intesa da parte
di Israele, con il primo ministro Netanyahu che oggi si trova a Londra. Tappa a Berlino,
invece, per il presidente palestinese, Abu Mazen, secondo il quale lo Stato ebraico
deve scegliere tra colonie e pace. Ma in che modo questo accordo ridisegna i rapporti
di forza tra le due fazioni palestinesi? Giancarlo La Vella lo a chiesto Marcella
Emiliani, docente di sviluppo politico del Medio Oriente all’Università di Bologna:
R. – I punti
più importanti, naturalmente, sono quelli che riguardano i servizi di sicurezza: non
scordiamoci che la frattura tra Hamas e Fatah, nel 2007, è stata provocata proprio
dal fatto che Hamas non voleva smantellare i propri apparati di sicurezza. Il secondo
punto dolente era il rifiuto di Hamas di entrare nell’Olp, quell’organizzazione-ombrello
che fino alla nascita di Hamas ha raccolto tutti i movimenti palestinesi: l’unico,
legittimo rappresentante del popolo palestinese. Ora a negoziare con Israele sarà
delegata proprio l’Olp, dentro alla quale entra anche Hamas: evidentemente, Hamas
– attraverso l’Olp – andrà al tavolo dei negoziati con Israele stesso. Quindi, indirettamente
significa riconoscere Israele.
D. – Rinunciare, quindi, alla distruzione
dello Stato ebraico, così come invece è ancora presente nel programma di Hamas?
R.
– Questo è un punto che andrebbe chiarito molto bene. Infatti, Israele non si accontenta
di un riconoscimento indiretto: chiederà a più riprese, a questo punto sia ad Hamas,
sia ad al Fatah, di essere riconosciuta e che si rinunci alla violenza come metodo
di lotta politica.
D. – Le prossime elezioni palestinesi di settembre,
riusciranno a risolvere anche quella divisione geografica esistente tra Hamas – che
governa Gaza – e Fatah, che governa la Cisgiordania?
R. – Questo lo
vedo molto difficile, perché allo stato attuale delle cose l’Autonomia nazionale palestinese
è una mappa a pelle di leopardo con territori non contigui, costellata di insediamenti
ebraici. L’unico che negoziava su questo terreno era Abu Mazen, presidente dell’Autorità.
Va da sé che se gli riuscirà, a settembre, all’assemblea generale dell’Onu, di fare
riconoscere l’Autorità nazionale palestinese come Stato, allora anche i palestinesi
avranno un po’ di autorità in più per potere negoziare un territorio che sia un po’
meno disastrato.
D. – Le preoccupazioni di Israele su questo accordo
rischiano di prolungare ancora di più la fase di stallo dei negoziati?
R.
– Naturalmente, questo è un timore che il premier Netanyahu è legittimato ad avere.
Netanyahu ha rifiutato qualsiasi dialogo, in pratica, affermando di non avere interlocutori.
A questo punto, gli interlocutori li ha; bisogna vedere su quale terreno intende trovare
un accordo o meno. Israele deve decidere quale atteggiamento tenere: se fidarsi o
non fidarsi. In politica arriva sempre un momento in cui bisogna fare un investimento,
altrimenti si arriva sempre e solo alle armi! (gf)