Accordo tra Al Fatah e Hamas su governo di transizione ed elezioni
Dopo una lunga serie di incontri segreti, Al Fatah, guidata dal presidente dell'Anp,
Abu Mazen, ed il movimento islamico Hamas, al potere a Gaza, hanno annunciato ieri
al Cairo di aver raggiunto un accordo di riconciliazione che prevede, tra le altre
cose, la formazione di un governo di transizione ed elezioni entro un anno. Dura la
reazione di Israele, che teme un’estensione del movimento integralista anche in Cisgiordania.
Un plauso giunge, invece, da parte dell’Iran, mentre gli Stati Uniti ritengono che
qualsiasi governo palestinese debba rinunciare alla violenza e riconoscere il diritto
di Israele di esistere se vuole giocare un ruolo costruttivo. Salvatore Sabatino
ha chiesto a Maria Grazia Enardu, docente di Relazioni Internazionali presso
l’Università di Firenze, se questo accordo può essere considerato una diretta conseguenza
degli sconvolgimenti in atto nel mondo arabo. Ascoltiamo:
R. - Pare
proprio di sì, sia perché l’accordo è stato fatto con l’aiuto dell’Egitto, di questo
“nuovo” Egitto, sia perché - pare - che a spingere i due movimenti a mettersi d’accordo
siano state le proteste giovanili di gruppi palestinesi, non affiliati a nessuna delle
due fazioni, sia a Gaza che in Cisgiordania: gruppi che reclamavano un’unità e una
diversa politica sia interna, sia esterna.
D. - Dura la reazione del
premier israeliano Netanyahu che ha messo il leader dell’Anp, Abu Mazen, di fronte
ad una scelta: o la pace con Israele o la riconciliazione con Hamas. Quali sono i
timori di Israele?
R. - Che un fronte palestinese unificato diventi
più duro e non per la presenza di Hamas, ma perché a questo punto anche Abu Mazen,
anche la componente maggioritaria, si sentirà più sicura in un negoziato che potrà
condurre meglio.
D. - Bisogna dire che Netanyahu sarà negli Stati Uniti
in maggio; era atteso un discorso al Congresso sulla pace in Medio Oriente… Ora cosa
ci possiamo attendere?
R. - Ci possiamo attendere che la promessa che
aveva fatto, poche settimane fa, di fare una proposta di pace in Congresso sia superata
da un discorso in cui dica che con questo soggetto politico unificato, in cui tutti
saranno considerati terroristi, non si può minimamente negoziare.
D.
- Gli Stati Uniti, dal canto loro, hanno fatto sapere che qualsiasi governo palestinese
deve rinunciare alla violenza e riconoscere il diritto di Israele ad esistere: non
è una posizione, secondo lei, un po’ debole quella di Washington in questo momento?
R.
- Washington, in questo momento, guarda tutto il Medio Oriente con crescente orrore…
non sono certo i palestinesi a preoccuparlo davvero: la Siria preoccupa molto di più.
Quindi da parte americana, semmai, ci sarà la gestione della visita di Netanyahu,
che chiaramente andrà negli Stati Uniti a chiedere ad Obama totale rassicurazione
su questa novità rappresentata dall’unità palestinese.
D. - I primi
di maggio il governo egiziano inviterà al Cairo le fazioni palestinesi per firmare
l’accordo. L’Egitto, dunque, nonostante gli sconvolgimenti, si conferma uno degli
attori principali sulla scena mediorientale……
R. – E’ proprio così,
anche perché l’Egitto conosce benissimo Gaza e sa che se non si risolve, in qualche
modo, il problema di Gaza in un contesto palestinese più generale, esso stesso avrà
problemi di instabilità. Anche da parte - immagino - dell’opinione pubblica egiziana
non si può tollerare in questo nuovo Egitto il fatto che l’“Egitto nuovo” collabori
ancora con Israele per tenere chiusa Gaza: sicuramente in queste discussioni il Cairo
avrà fatto qualche promessa riguardo all’apertura o almeno ad una elasticità del confine
tra Egitto e Gaza. (mg)