2011-04-13 17:03:38

LETTURE DIVERSE DELLE RIVOLTE AFRICANE


La crisi che infiamma il Nordafrica dimostra come la Comunità Internazionale sia rimasta prigioniera di un concetto ottocentesco riguardo all’Africa come soggetto politico e ruolo geostrategico, vista come una regione che costituisce una semplice appendice della storia mondiale, un semplice paragrafo della geopolitica mondiale. I media internazionali hanno parlato soprattutto di “rivoluzioni arabe”, associando da subito alle rivolte il pericolo di una diffusione del fondamentalismo islamico. Hanno travisato la realtà dei Paesi in questione, che sono innanzitutto africani, fondatori e membri a pieno titolo dell’Unione Africana (UA, istituzione che rappresenta il continente e riconosciuta nell’organigramma della Comunità Internazionale). Inoltre, è bene ricordare che Algeria, Libia, Marocco e Tunisia non sono gli unici paesi arabi all’interno del continente e che, d’altra parte, altri Stati africani stanno vivendo importanti crisi socio-politiche, delle quali però non si parla (Mauritania, Mozambico, Senegal, Sudafrica, ecc.).
Tale rappresentazione è all’origine del contrasto emerso, nella gestione della crisi libica, tra l’UA (della quale la Libia è membro) e la cosiddetta “coalizione dei volenterosi”, costituita principalmente da alcuni paesi europei e dagli Stati Uniti. Sebbene la stessa Carta dell’ONU preveda il ruolo prioritario delle organizzazioni regionali nella gestione delle questioni locali, la strategia fino a oggi adottata dagli euro-nordamericani non prevede il coinvolgimento dell’UA con un ruolo di guida nel processo d’interposizione tra le parti in conflitto. Sono così i fondamenti stessi del pensiero geopolitico classico che spingono le potenze occidentali a ignorare il ruolo dell’Unione e dei paesi africani, nella ricerca di una soluzione condivisa alle crisi. L’approccio attuale dell’Europa continua a considerare il Nordafrica come “altro, estraneo” rispetto al resto del continente, per collocarlo più facilmente all’interno di una strategia mediorientale e includerlo in quello che oggi chiamano comunemente “Spazio Euromeditarraneo”. Una visione che non tiene conto del significato dell’Africa a Sud del Sahara, investita da analoghe mobilitazioni di piazza, e che proietta un’immagine di “frammentarietà” del continente, non molto attenta al benessere di lungo periodo delle popolazioni africane ma certamente congeniale agli interessi strategici e alla sicurezza del mondo occidentale: da una parte l’esigenza di garantire gli equilibri geopolitici nel Medio Oriente, dall’altra l’accesso alle risorse energetiche locali.

Ma come avrebbe l’UA gestito la rivoluzione nordafricana, e in modo particolare quella libica?
Nel progetto di “rinascimento continentale”, il progetto Nepad, lanciato all’inizio del nuovo millennio dai Capi di Stato africani, tra le riforme necessarie per lo sviluppo politico del continente sono indicate l’edificazione della pace, la riconciliazione nazionale, la costruzione di Stati di Diritto, attraverso processi che portino ad un pluralismo istituzionale e a libere elezioni popolari.
La Libia è un paese importante per l’attuazione del programma dell’UA nonché per l’equilibrio geostrategico ed economico dell’intero continente. In linea con le direttive del Nepad, i vertici dell’Unione lavorano da tempo in favore di un passaggio pacifico ad un nuovo regime nello Stato (la predisposizione alla ricerca di soluzioni concertate piuttosto che l’uso della violenza è, d’altra parte, sancita nello Statuto stesso dell’Unione). Da anni era aperto un tavolo di dialogo informale, sotto l’egida dell’UA, finalizzato proprio alla pacificazione interna tra i diversi gruppi che compongono l’insieme della società libica, al fine di rispondere alle legittime aspirazioni del popolo. Inoltre, a seguito dell’esplosione delle violenze nel febbraio scorso ma prima della decisione ONU riguardo alla no-fly zone e all’intervento armato, l’UA aveva avviato negoziati per un cessate il fuoco immediato tra il Consiglio Nazionale di Transizione (CNT) di Benghazi e le autorità di Tripoli. Una missione di cinque Capi di Stato africani era inoltre prevista dalla road map dell’Organizzazione, proprio allo scopo di guidare un tavolo di concertazione tra Gheddafi e gli insorti. Non sorprende, dunque, che l’intervento militare abbia raccolto la condanna esplicita di quasi tutti i Capi di Stato africani (compresi i più critici nei confronti del regime di Gheddafi) e delle popolazioni, che hanno dato luogo a manifestazioni di protesta a Dakar e in altre città africane.
In varie occasioni il Presidente della Commissione dell’UA, Jean Ping, ha sottolineato che il dialogo tra le parti è fondamentale, al fine di ristabilire la pace e preservare l’integrità territoriale della Libia. L’UA ha inoltre insistito sull’importanza di mantenere l’embargo sulle armi, di smorzare l’odio e creare un nuovo patto politico, culturale e religioso nella popolazione.
Il tessuto sociale necessario alla riconciliazione nazionale e all’edificazione di uno Stato di Diritto risulta invece oggi compromesso in Libia, a causa dell’esplosione della violenza interna e della risposta inadeguata data da Europa e Stati Uniti. D’altra parte, l’uso della violenza politica pone problemi anche dal punto di vista del riconoscimento dell’eventuale nuova coalizione politica alla guida della Libia dal momento che – secondo Statuto - l’UA non può riconoscere un Governo insediatosi per mezzo delle armi.

Purtroppo, le visioni “antiche” che viziano la percezione del mondo occidentale della realtà internazionale non consentono di intraprendere un partenariato più sereno con il continente africano nella sua globalità. Una prospettiva di vera cooperazione deve tener presenti le evoluzioni delle politiche e delle società che, per essere al passo con i tempi, devono necessariamente “cambiare insieme al mondo”. Da qui la necessità di uno sguardo dinamico, attento a ciò che si muove all’interno delle strutture sociali, alle modalità con le quali la vita degli africani si radica nella congiuntura geopolitica continentale e internazionale odierna. Una lettura più coerente con la realtà locale – rispetto alla “narrazione storica” suggerita dai principali canali della comunicazione politica - avrebbe consentito di accorgersi che il comportamento di opposizione costituisce da anni l’elemento fondamentale della vita sociale in tutto il continente africano. É in atto un risveglio popolare che fa parte di una generalizzata “cultura del disaccordo”, emersa in concomitanza e grazie all’avvento del cosiddetto pluralismo politico. Oggi uomini e donne alzano la voce e affrontano a viso aperto la violenza sistematica dei poteri dominanti, coscienti della necessità della lotta contro la miseria spaventosa dell’era contemporanea, dominata dal “Vangelo del Mercato” e nella quale il denaro acquista sempre più un valore assoluto. Intere popolazioni, private dei diritti politici, rivelano tutto il loro potenziale di protesta collettiva, resistendo alla tentazione di arrendersi davanti alla repressione dei cosiddetti “regimi di ferro”. L’Africa è da tempo un continente in fermento, che rischia di implodere qualora non si dia una risposta globale adeguata alle domande ben precise - e per niente ideologiche – delle popolazioni in continuo tumulto. Dalle rivoluzioni ideologiche siamo passati alle rivolte popolari, ispirate da rivendicazioni pratiche e legittime. Le “piazze” di oggi non cercano la presa del potere; chiedono piuttosto pane, medicinali, giustizia sociale, lavoro, democrazia... Sono comportamenti sociali che possono essere compresi solo dando giusto riconoscimento, seppure in un’ottica di visione complessiva del continente, al “bricolage” e alla pluralità di esperienze che caratterizzano le società africane. Con gli interventi delle potenze europee, invece, queste agitazioni sono state in un certo senso “tenute volutamente al di fuori” dalla regione nordafricana e considerate come una realtà a parte, a tutela di un concetto di “sicurezza” del tutto incurante delle aspirazioni profonde alla pace, allo sviluppo e alla libertà dei popoli africani.

Possiamo quindi concludere che il Nordafrica, eccezione fatta per l’Algeria, è semplicemente attraversato con venti anni di ritardo, rispetto ad altre regioni del continente, da questo vento di liberalizzazione dello spazio politico-sociale.
Il fattore innovativo degli ultimi mesi non è, dunque, nella mobilitazione delle piazze, ma nella sorpresa che sembra aver colto sia gli Usa sia l’Europa, nel caso della Tunisia, e nella decisione di un intervento diretto e non concertato con l’Unione Africana, per quanto riguarda la Libia.
Nella sensibilità africana, infine, la soluzione assegnata dagli alleati alla crisi libica (contro un leader che aveva dimostrato una posizione in politica estera marcatamente autonoma rispetto alla volontà delle potenze occidentali) è associata al timore per il ritorno del fantasma di “Patrice Lumumba”, leader della Repubblica Democratica del Congo degli anni Cinquanta, vittima e simbolo di quella strategia dell’eliminazione sistematica di tutti i politici che hanno ostentato indipendenza rispetto agli interessi delle potenze esterne. Mai come ora, gran parte delle classi dirigenti africane si domandano se in un regime di partenariato democratico fra Stati sia consentito anche ai leaders africani godere di una certa “indipendenza intellettuale” - come l’ha definita uno dei più aspri critici di Gheddafi, il Presidente dell’Uganda Yoweri Musseveni - senza per questo subire la stessa sorte di Lumumba, Cabral, Thomas Sankara. E la lista è lunga.

(A cura di Filomeno Lopes, del programma portoghese per l'Africa).







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