Giornata di studio sui "martiri per la giustizia" nel Sud d'Italia: Livatino, Puglisi,
Diana
“Il martirio rischia di diventare una realtà eterea se non si parla dei martiri”.
Il richiamo giunge da Napoli, dove ieri si è svolta, presso la Pontificia Facoltà
Teologica dell’Italia Meridionale - sezione San Luigi - la 7.ma Giornata di studio
sulla storia del cristianesimo, organizzata dall’Istituto storico “Cataldo Naro”.
Al centro dei lavori - che hanno riunito studenti, docenti e semplici cittadini -
le figure del giudice Rosario Livatino, di Don Pino Puglisi e don Beppe Diana, uccisi
perché impegnati sul fronte della giustizia nel Sud. Filo rosso dell’incontro la condivisa
affermazione che il martire non è un eroe, non testimonia il culto di sé, non agisce
per impulso personale, ma con libertà e responsabilità sceglie di morire con e come
Gesù Cristo per la giustizia. Ma quale immagine di queste tre figure si è voluta offrire
in questa giornata di approfondimento? Antonella Palermo lo ha chiesto a Sergio
Tanzarella, professore ordinario di Storia della Chiesa alla Facoltà teologica
dell’Italia Meridionale:
R. – E’ l’immagine
di una testimonianza libera e di un contrasto alle associazioni criminali realizzato
sul piano dell’educazione, dell’impegno al lavoro ed anche di una pastorale attenta
alle condizioni della vita concreta dei cittadini.
D. – C’è uno sguardo,
ci sono parole che abbiamo dimenticato quando facciamo riferimento a figure come queste?
R.
– Anzitutto la giustizia: non tanto e non solo la legalità, ma soprattutto la giustizia.
La ricerca di condizioni di libertà e di vita che al sud – ma non soltanto al sud
– venivano allora e vengono oggi in qualche misure dimenticate.
D.
– Livatino, Beppe Diana, Pino Puglisi: persone di fede. Dall’opinione pubblica, anche
non credente, come sono considerate?
R. – Da un lato c’è il rischio
della smemoratezza, dall’altro c’è il rischio di un ricordo rituale o a volte anche
di un uso strumentale e superficiale, che non passa attraverso i loro scritti e la
loro azione. L’errore potrebbe essere quello di circoscrivere il loro impegno e la
loro memoria alla realtà meridionale o anche alle Chiese del Meridione. Ma in realtà
non è così: sono figure che hanno, soprattutto in questo momento di celebrazioni talvolta
un po’ pompose dell’Unità d’Italia, probabilmente da ricordare quale sia stato il
prezzo altissimo che hanno pagato sacerdoti e uomini di fede – tutti e tre loro, ma
non soltanto loro – per testimoniare la propria fede, senza altri aggettivi e senza
altri orpelli. Questo non riguarda soltanto il Meridione, ma riguarda tutta l’Italia
e soprattutto in questo momento nel quale si affermano, ancora una volta e circa da
20 anni, volontà di separazione, di persecuzione, di nuovi razzismi.
D.
– La parte conclusiva dell’incontro di studio ha avuto per titolo: “Non eroi ma martiri.
La Chiesa sulla frontiera”. Qual è la differenza tra eroe e martire?
R.
– L’eroismo ha una diretta dipendenza dal modello greco. L’eroe è una sorta di superuomo
e ciò che fa lo compie con capacità straordinarie, potremmo dire sovraumane; il martire,
ciò che compie e ciò che professa, lo fa per grazia di Dio. E’ Dio che gli dà la forza
ed egli è testimone di Gesù Cristo, ne ripercorre lo stesso cammino. C’è una differenza
sostanziale e che dovrebbe apparire evidente se considerano appunto i contesti nei
quali sono stati elaborati questi termini: oggi la confusione mette da parte tutto
questo e fa diventare martiri anche coloro i quali svolgono altri impegni e altri
lavori, talvolta non particolarmente in linea con il rispetto della dignità umana.
(mg)