Il Papa all'udienza generale parla di sant'Alfonso Maria de' Liguori
All’udienza generale di oggi il Papa ha svolto la sua catechesi su Alfonso Maria de’
Liguori, un Santo napoletano del 1700: “esempio di pastore zelante che ha conquistato
le anime predicando il Vangelo e amministrando i Sacramenti – ha affermato - unito
ad un modo di agire improntato a una soave e mite bontà, che nasceva dall’intenso
rapporto con Dio, Bontà infinita". Quindi ha aggiunto: "Ha avuto una visione realisticamente
ottimista delle risorse di bene che il Signore dona ad ogni uomo e ha dato importanza
agli affetti e ai sentimenti del cuore, oltre che alla mente, per poter amare Dio
e il prossimo”. Questa la catechesi:
Cari fratelli e sorelle,
oggi
vorrei presentarvi la figura di un santo Dottore della Chiesa a cui siamo molto debitori,
perché è stato un insigne teologo moralista e un maestro di vita spirituale per tutti,
soprattutto per la gente semplice. E’ l’autore delle parole e della musica di uno
dei canti natalizi più popolari in Italia e non solo: Tu scendi dalle stelle.
Appartenente
a una nobile e ricca famiglia napoletana, Alfonso Maria de’ Liguori nacque nel 1696.
Dotato di spiccate qualità intellettuali, a soli 16 anni conseguì la laurea in diritto
civile e canonico. Era l’avvocato più brillante del foro di Napoli: per otto anni
vinse tutte le cause che difese. Tuttavia, nella sua anima assetata di Dio e desiderosa
di perfezione, il Signore lo conduceva a comprendere che un’altra era la vocazione
a cui lo chiamava. Infatti, nel 1723, indignato per la corruzione e l’ingiustizia
che viziavano l’ambiente forense, abbandonò la sua professione - e con essa la ricchezza
e il successo - e decise di diventare sacerdote, nonostante l’opposizione del padre.
Ebbe degli ottimi maestri, che lo introdussero allo studio della Sacra Scrittura,
della Storia della Chiesa e della mistica. Acquisì una vasta cultura teologica, che
mise a frutto quando, dopo qualche anno, intraprese la sua opera di scrittore. Fu
ordinato sacerdote nel 1726 e si legò, per l’esercizio del ministero, alla Congregazione
diocesana delle Missioni Apostoliche. Alfonso iniziò un’azione di evangelizzazione
e di catechesi tra gli strati più umili della società napoletana, a cui amava predicare,
e che istruiva sulle verità basilari della fede. Non poche di queste persone, povere
e modeste, a cui egli si rivolgeva, molto spesso erano dedite ai vizi e compivano
azioni criminali. Con pazienza insegnava loro a pregare, incoraggiandole a migliorare
il loro modo di vivere. Alfonso ottenne ottimi risultati: nei quartieri più miseri
della città si moltiplicavano gruppi di persone che, alla sera, si riunivano nelle
case private e nelle botteghe, per pregare e per meditare la Parola di Dio, sotto
la guida di alcuni catechisti formati da Alfonso e da altri sacerdoti, che visitavano
regolarmente questi gruppi di fedeli. Quando, per desiderio dell’arcivescovo di Napoli,
queste riunioni vennero tenute nelle cappelle della città, presero il nome di “cappelle
serotine”. Esse furono una vera e propria fonte di educazione morale, di risanamento
sociale, di aiuto reciproco tra i poveri: furti, duelli, prostituzione finirono quasi
per scomparire.
Anche se il contesto sociale e religioso dell’epoca
di sant’Alfonso era ben diverso dal nostro, le “cappelle serotine” appaiono un modello
di azione missionaria a cui possiamo ispirarci anche oggi per una “nuova evangelizzazione”,
particolarmente dei più poveri, e per costruire una convivenza umana più giusta, fraterna
e solidale. Ai sacerdoti è affidato un compito di ministero spirituale, mentre laici
ben formati possono essere efficaci animatori cristiani, autentico lievito evangelico
in seno alla società.
Dopo aver pensato di partire per evangelizzare
i popoli pagani, Alfonso, all’età di 35 anni, entrò in contatto con i contadini e
i pastori delle regioni interne del Regno di Napoli e, colpito dalla loro ignoranza
religiosa e dallo stato di abbandono in cui versavano, decise di lasciare la capitale
e di dedicarsi a queste persone, che erano povere spiritualmente e materialmente.
Nel 1732 fondò la Congregazione religiosa del Santissimo Redentore, che pose sotto
la tutela del vescovo Tommaso Falcoia, e di cui successivamente egli stesso divenne
il superiore. Questi religiosi, guidati da Alfonso, furono degli autentici missionari
itineranti, che raggiungevano anche i villaggi più remoti esortando alla conversione
e alla perseveranza nella vita cristiana soprattutto per mezzo della preghiera. Ancor
oggi i Redentoristi, sparsi in tanti Paesi del mondo, con nuove forme di apostolato,
continuano questa missione di evangelizzazione. A loro penso con riconoscenza, esortandoli
ad essere sempre fedeli all’esempio del loro santo Fondatore.
Stimato
per la sua bontà e per il suo zelo pastorale, nel 1762 Alfonso fu nominato Vescovo
di Sant’Agata dei Goti, ministero che, in seguito alle malattie da cui era afflitto,
lasciò nel 1775, per concessione del Papa Pio VI. Lo stesso Pontefice, nel 1787, apprendendo
la notizia della sua morte, avvenuta dopo molte sofferenze, esclamò: “Era un santo!”.
E non si sbagliava: Alfonso fu canonizzato nel 1839, e nel 1871 venne dichiarato Dottore
della Chiesa. Questo titolo gli si addice per molteplici ragioni. Anzitutto, perché
ha proposto un ricco insegnamento di teologia morale, che esprime adeguatamente la
dottrina cattolica, al punto che fu proclamato dal Papa Pio XII “Patrono di tutti
i confessori e i moralisti”. Ai suoi tempi, si era diffusa un’interpretazione molto
rigorista della vita morale anche a motivo della mentalità giansenista che, anziché
alimentare la fiducia e la speranza nella misericordia di Dio, fomentava la paura
e presentava un volto di Dio arcigno e severo, ben lontano da quello rivelatoci da
Gesù. Sant’Alfonso, soprattutto nella sua opera principale intitolata Teologia Morale,
propone una sintesi equilibrata e convincente tra le esigenze della legge di Dio,
scolpita nei nostri cuori, rivelata pienamente da Cristo e interpretata autorevolmente
dalla Chiesa, e i dinamismi della coscienza e della libertà dell’uomo, che proprio
nell’adesione alla verità e al bene permettono la maturazione e la realizzazione della
persona. Ai pastori d’anime e ai confessori Alfonso raccomandava di essere fedeli
alla dottrina morale cattolica, assumendo, nel contempo, un atteggiamento caritatevole,
comprensivo, dolce perché i penitenti potessero sentirsi accompagnati, sostenuti,
incoraggiati nel loro cammino di fede e di vita cristiana. Sant’Alfonso non si stancava
mai di ripetere che i sacerdoti sono un segno visibile dell’infinita misericordia
di Dio, che perdona e illumina la mente e il cuore del peccatore affinché si converta
e cambi vita. Nella nostra epoca, in cui vi sono chiari segni di smarrimento della
coscienza morale e – occorre riconoscerlo – di una certa mancanza di stima verso il
Sacramento della Confessione, l’insegnamento di sant’Alfonso è ancora di grande attualità.
Insieme
alle opere di teologia, sant’Alfonso compose moltissimi altri scritti, destinati alla
formazione religiosa del popolo. Lo stile è semplice e piacevole. Lette e tradotte
in numerose lingue, le opere di sant’Alfonso hanno contribuito a plasmare la spiritualità
popolare degli ultimi due secoli. Alcune di esse sono testi da leggere con grande
profitto ancor oggi, come Le Massime eterne, Le glorie di Maria, La pratica d’amare
Gesù Cristo, opera – quest’ultima – che rappresenta la sintesi del suo pensiero e
il suo capolavoro. Egli insiste molto sulla necessità della preghiera, che consente
di aprirsi alla Grazia divina per compiere quotidianamente la volontà di Dio e conseguire
la propria santificazione. Riguardo alla preghiera egli scrive: “Dio non nega ad alcuno
la grazia della preghiera, con la quale si ottiene l’aiuto a vincere ogni concupiscenza
e ogni tentazione. E dico, e replico e replicherò sempre, sino a che avrò vita, che
tutta la nostra salvezza sta nel pregare”. Di qui il suo famoso assioma: “Chi prega
si salva” (Del gran mezzo della preghiera e opuscoli affini. Opere ascetiche II, Roma
1962, p. 171). Mi torna in mente, a questo proposito, l’esortazione del mio precedessore,
il Venerabile Servo di Dio Giovanni Paolo II: “Le nostre comunità cristiane devono
diventare «scuole di preghiera»... Occorre allora che l’educazione alla preghiera
diventi un punto qualificante di ogni programmazione pastorale” (Lett. ap. Novo Millennio
ineunte, 33,34).
Tra le forme di preghiera consigliate fervidamente
da sant’Alfonso spicca la visita al Santissimo Sacramento o, come diremmo oggi, l’adorazione,
breve o prolungata, personale o comunitaria, dinanzi all’Eucaristia. “Certamente –
scrive Alfonso – fra tutte le devozioni questa di adorare Gesù sacramentato è la prima
dopo i sacramenti, la più cara a Dio e la più utile a noi... Oh, che bella delizia
starsene avanti ad un altare con fede... e presentargli i propri bisogni, come fa
un amico a un altro amico con cui si abbia tutta la confidenza!” (Visite al SS. Sacramento
ed a Maria SS. per ciascun giorno del mese. Introduzione). La spiritualità alfonsiana
è infatti eminentemente cristologica, centrata su Cristo e il Suo Vangelo. La meditazione
del mistero dell’Incarnazione e della Passione del Signore sono frequentemente oggetto
della sua predicazione. In questi eventi, infatti, la Redenzione viene offerta a tutti
gli uomini “copiosamente”. E proprio perché cristologica, la pietà alfonsiana è anche
squisitamente mariana. Devotissimo di Maria, egli ne illustra il ruolo nella storia
della salvezza: socia della Redenzione e Mediatrice di grazia, Madre, Avvocata e Regina.
Inoltre, sant’Alfonso afferma che la devozione a Maria ci sarà di grande conforto
nel momento della nostra morte. Egli era convinto che la meditazione sul nostro destino
eterno, sulla nostra chiamata a partecipare per sempre alla beatitudine di Dio, come
pure sulla tragica possibilità della dannazione, contribuisce a vivere con serenità
ed impegno, e ad affrontare la realtà della morte conservando sempre piena fiducia
nella bontà di Dio.
Sant’Alfonso Maria de’ Liguori è un esempio di pastore
zelante, che ha conquistato le anime predicando il Vangelo e amministrando i Sacramenti,
unito ad un modo di agire improntato a una soave e mite bontà, che nasceva dall’intenso
rapporto con Dio, Bontà infinita. Ha avuto una visione realisticamente ottimista delle
risorse di bene che il Signore dona ad ogni uomo e ha dato importanza agli affetti
e ai sentimenti del cuore, oltre che alla mente, per poter amare Dio e il prossimo.
In
conclusione, vorrei ricordare che il nostro Santo, analogamente a san Francesco di
Sales – di cui ho parlato qualche settimana fa – insiste nel dire che la santità è
accessibile ad ogni cristiano: “Il religioso da religioso, il secolare da secolare,
il sacerdote da sacerdote, il maritato da maritato, il mercante da mercante, il soldato
da soldato, e così parlando d’ogni altro stato” (Pratica di amare Gesù Cristo. Opere
ascetiche I, Roma 1933, p. 79). Ringraziamo il Signore che, con la sua Provvidenza,
suscita santi e dottori in luoghi e tempi diversi, che parlano lo stesso linguaggio
per invitarci a crescere nella fede e a vivere con amore e con gioia il nostro essere
cristiani nelle semplici azioni di ogni giorno, per camminare sulla strada della santità,
sulla strada verso Dio e verso la vera gioia.