Giornata di proteste antigovernative oggi in diverse città della Siria, al termine
della preghiera islamica del venerdì. A Damasco la polizia è intervenuta per disperdere
i manifestanti, mentre media locali riferiscono di diversi arresti. Raduni anche nel
centro di Daraa, nel sud, dove le forze dell’ordine hanno impedito l’accesso ai giornalisti
stranieri e dove si contano una quarantina di vittime negli ultimi sette giorni. Nelle
ultime ore il presidente Bashar al-Assad ha promesso la revoca dello stato d’emergenza
e una serie di riforme, in linea con le richieste della piazza. Quanto sta avvenendo
in Siria allarma tuttavia la comunità internazionale già alle prese con la crisi libica.
Stefano Leszczynski ha intervistato Antonio Ferrari, inviato speciale
ed analista del Corriere della Sera:
R. - La prima
considerazione che mi viene da fare è che la Siria non ha ricchezze, non ha risorse
energetiche, cosa che invece ha la Libia e sappiamo anche quanto queste risorse contino.
Certo, dal punto di vista prettamente politico, la Siria conta più della Libia: non
soltanto all’interno del mondo arabo ma anche come stabilità della regione. Ecco perché,
politicamente, forse è più preoccupante, al di là della guerra in corso in Libia,
per segnalare il disagio nel mondo arabo.
D. - Le monarchie del Mediterraneo
sono più stabili delle repubbliche. Tuttavia, diciamo che le misure che i giovani
re del Marocco e della Giordania ed i presidenti dei Paesi dove ci sono delle proteste
sono simili: tutti puntano su delle riforme sociali che però non cambiano radicalmente
la situazione nel Paese…
R. - Assolutamente sì. Poi alla promessa di
riforme sociali - penso soprattutto alla Siria, ma potrebbe accadere anche alla Libia
- c’è veramente da credere poco. Più che altro è un problema sociale. In Siria - come
in altri Paesi - è un problema anche politico, non soltanto perché la Siria può allungare
i suoi tentacoli sul Libano come ha fatto e come continua a fare - non solo quindi
per la sua collocazione -, ma anche perché la Siria rappresenta un punto di riferimento
sostanziale di tutto quello che potrebbe produrre il rilancio del processo di pace.
D.
- Quanto è avvenuto nell’Africa settentrionale rispetto a quello che sta avvenendo
nel Medio Oriente, le differenze sono grandi. Soprattutto le ricadute, in Medio Oriente,
potrebbero essere molto più gravi a livello regionale…
R. - Queste sono
rivolte di popolo, dove non c’è un obiettivo violento ma c’è voglia di libertà, e
questo è bellissimo. Però attenzione: il problema è sempre pensare a chi ci mette
il cappello dopo. Mettere il cappello, soprattutto in Medio Oriente, può diventare
pericoloso. Non è che l'integralismo islamico è improvvisamente svanito, o, anzi,
ce lo siamo inventato; l’integralismo islamico esisteva e, forse, probabilmente, esiste
ancora. Ecco perché bisogna essere cauti e far funzionare la ragione più che le emozioni.
(vv)