I sette anni del muro di separazione a Betlemme, barriera che spezza un popolo
Il primo marzo 2004 avveniva la posa della prima pietra del muro di separazione a
Betlemme. Questi sette anni sono stati rivissuti oggi nella giornata di sensibilizzazione
e preghiera “Un ponte per Betlemme”, organizzata dalle parrocchie della città della
Cisgiordania, di Beit Jala e Beit Zahur, dalle suore Elisabettine Francescane del
Caritas Baby Hospital, da Pax Christi Italia e Agesci. Giada Aquilino ha raggiunto
telefonicamente suor Donatella Lessio, del Caritas Baby Hospital di
Betlemme, visitato da Benedetto XVI durante il suo pellegrinaggio in Terra Santa del
maggio 2009:
R. – Alle
quattro e mezzo di stamani, ci siamo portati al check-point300 di Betlemme
per vivere l’esperienza concreta e diretta con le centinaia di lavoratori che ogni
mattina tentano di attraversarlo. Un’esperienza impressionante: anch’io, dopo sette
anni, l’ho fatta per la prima volta e avevo il cuore spezzato nel vedere come tutti
questi uomini debbano lottare per andare a lavoro. Siamo passati anche noi, come loro,
verso Gerusalemme. Abbiamo fatto la strada di ritorno e recitato il Rosario al muro
– come ogni venerdì noi suore facciamo, ormai da sette anni – proprio per chiedere
l’intercessione della Vergine per la pace. Noi abbiamo un sogno: che il muro cada.
E poi, un’altra cosa: abbiamo celebrato anche la Messa lì al muro, al check-point,
per rendere presente e viva la figura di Cristo.
D. – Sette anni dal
muro di separazione: com’è la vita, a Betlemme?
R. – Di anno in anno,
peggiora sempre; le restrizioni ci sono. La situazione è molto, molto critica. Manca
la possibilità di andare a lavorare tranquillamente: la gente si alza alle tre di
mattina per raggiungere il posto di lavoro alle otto. Manca la possibilità di vivere
una vita tranquilla: essendo un territorio occupato, l’occupazione è reale, esiste
veramente. Manca la possibilità di incontrarsi tra amici, ci sono famiglie che sono
state divise, madri e figli separati tra di loro, per cui anche l’unione familiare
è stata interrotta. E’ un po’ il quadro di quella che è qui la vita quotidiana: la
normalità non esiste più.
D. – Di cosa si occupano le suore del Caritas
Baby Hospital di Betlemme?
R. – Il Caritas Baby Hospital è l’unico ospedale
pediatrico di tutti i Territori occupati, per cui noi accogliamo bambini – solo palestinesi,
perché ovviamente non c’è la possibilità per altri di varcare il muro – e svolgiamo
l’attività di un ospedale pediatrico a tutti gli effetti. Diamo anche un supporto
alle mamme, che così hanno la possibilità di rimanere con i loro figli 24 ore su 24,
in un appartamento dove facciamo educazione sanitaria.
D. – Il muro
di separazione dove si trova rispetto all’ospedale?
R. – A cento metri.
Non essendo noi un ospedale chirurgico, quando ci arrivano bambini con problemi che
richiedono interventi, soprattutto di alta chirurgia, abbiamo la necessità di trasferire
i bambini a Gerusalemme: ovviamente, tutti i palestinesi per passare di là hanno bisogno
di un permesso. Bisogna aspettare, completare tutte le pratiche. Poi, l’ambulanza
palestinese, una volta ottenuto il permesso per il paziente, non può oltrepassare
il check-point, deve aspettare l’ambulanza israeliana e fare il trasferimento.
E ovviamente anche lì ci sono tempi importanti che si perdono per il bambino.
D.
– C’è un ricordo, un momento di gioia legati a questi bambini?
R. –
Ho in mente il caso di una bambina che era in fin di vita per un problema renale:
aveva bisogno di dialisi e qui in Palestina non c’è nessun centro per la dialisi.
Un medico, testardo, ha fatto di tutto perché la bambina venisse trasferita di là.
I medici di Gerusalemme avevano detto: “Non possiamo fare molto; tentiamo…”. La forza
della bambina e la sua volontà di vivere hanno fatto sì che Amani ritornasse da noi
al Caritas Baby Hospital con una scatola di cioccolatini che ha offerto prima di tutto
al medico che l’aveva inviata di là. (gf)