Festival di Berlino: drammi pubblici e crisi del privato al centro della 61.ma
edizione
Coppie in crisi, anime erranti, popoli senza terra: oscillando fra pubblico e privato
la 61.ma edizione del Festival di Berlino introduce lo spettatore in quella che è
la vera natura del cinema, l’incontro fra uno stato d’animo e lo stato del mondo.
“Nader and Simin, a Separation” di Asghar Farhadi racconta lo sfaldamento di una coppia
all’interno di un sistema rigidamente regolato come la società iraniana. Causa scatenante
del conflitto è il contrasto fra le aspirazioni degli individui e i doveri familiari.
Su una tale contraddizione si innestano altre situazioni poco chiare che faranno di
lì a poco precipitare la situazione. Come nel suo film precedente, “About Elly”, il
cineasta iraniano crea un complicato sistema di relazioni che capta la confusione
del momento presente e impedisce di vedere chiaramente il torto e la ragione. Se la
verità delle cose è sconosciuta all’uomo, qui il dubbio dice sulla situazione del
Paese islamico molto di più di una certezza assoluta. Anche “The Future” di Miranda
July e “Un mundo misterioso” di Rodrigo Moreno seguono la crisi di una coppia. Ma
se nel primo caso la storia, raccontata dall'eccentrico punto di vista di un gatto,
si tinge di fantastico, nel secondo la vicenda assume fino dall’inizio un tono straniante,
lunare, come se il motore delle azioni umane non fosse più la passione ma il faticoso
dovere di vivere. La regista americana si perde un po’ nel compiacimento autobiografico,
quella argentina negli spazi assolati di un capodanno australe. Entrambi i film, un
po’ divertenti e un po’ noiosi, sono frammenti dell’eterna commedia umana. Anche “The
Turin horse” di Bela Tarr si riferisce all’umanità. Tuttavia nella parabola del regista
ungherese questa è inquadrata fin dall’inizio nella sua situazione miserabile, senza
speranza. Siamo nella Torino di fine Ottocento, laddove la genialità di Friedrich
Nietzsche si trasforma in pazzia. Non è pero lui ad essere il protagonista del film
quanto la famiglia dei proprietari del cavallo, abbracciando il quale Nietzsche rivela
il suo malessere profondo. Ma se il filosofo, chiuso nella sua demenza, rimarrà estraneo
al mondo, gli altri continueranno a portare sulle spalle il peso e la fatica della
condizione umana. Cupo, lento ripetitivo, invaso dal rumore di un vento che non si
placa mai, il film ricorda il tono di certe maledizioni bibliche che condannano l’uomo
a misurarsi con la sua finitudine. Proprio da questa finitudine parte “Territoire
perdu” di Pierre-Yves Wandeweerd, riportando alla conoscenza del mondo un popolo invisibile
di cui il cinismo della geopolitica farebbe volentieri a meno. Qui siamo nel deserto
del Sahara in quel triangolo di nulla dove sono confinati gli uomini e le donne dell’etnia
Saharawi. Il regista belga ha girato il suo film in due riprese in totale clandestinità,
la prima in super8, la seconda per riprendere suoni e voci. Il risultato è un film
sgranato, spettrale, ipnotico; un film in stato di trance, che dà un volto agli invisibili
e la parola a chi non l’ha mai avuta. (Da Berlino, Luciano Barisone)