Il Concilio Vaticano II e la libertà religiosa: una rilettura della "Dignitatis humanae"
Il diritto alla libertà religiosa, difeso a ripetizione dal Papa e della Chiesa soprattutto
in un'epoca, come la recente, di rinnovate persecuzioni contro i cristiani, ha in
realtà un'antica radice nella Dichiarazione conciliare Dignitatis humanae,
dedicata a questo aspetto. Sulla dottrina di questo documento, approvato il 7 dicembre
1965, si sofferma il gesuita, padre Dariusz Kowalczyk, nella sua rubrica settimanale
di approfondimento dedicata al Vaticano II:
Dal recente
Rapporto dell’organizzazione “Aiuto alla Chiesa che Soffre” risulta che il 70% dell’umanità
vive nei aesi dove la libertà religiosa è limitata, e le persecuzioni per ragioni
di fede non sono mai cessate. Secondo il Rapporto, negli ultimi anni
su 100 vittime dell'intolleranza religiosa, 75 sono cristiani. Non di rado, anche
nella nostra epoca, il prezzo per professare la fede in Gesù Cristo è quello di essere
imprigionati, torturati o uccisi. Spesso – come ha detto Benedetto XVI a Londra
– implica anche "essere additati come irrilevanti, ridicolizzati o fatti
segno di parodia”.
In questa situazione, vale la pena rileggere la Dichiarazione
conciliare sulla libertà religiosa, la quale afferma “che la persona umana
ha il diritto alla libertà religiosa” (n. 2). E poi precisa: “questo diritto […] deve
essere riconosciuto come diritto civile nell'ordinamento giuridico della società”.
Purtroppo, non tutti i politici hanno voglia di promuovere una libertà religiosa reale,
e non soltanto dichiarativa (n. 2).
La libertà religiosa va vista in
due modi: come una “libertà da”, e una “libertà per”. Infatti, il Concilio
rileva: “che in materia religiosa nessuno sia forzato ad agire contro la sua
coscienza né sia impedito, […] di agire in conformità ad essa” (n. 2). La libertà
religiosa non può tuttavia essere limitata soltanto alla vita privata, poiché “la
stessa natura sociale dell'essere umano esige che egli esprima esternamente gli atti
interni di religione […] e professi la propria religione in modo comunitario” (n.
3).
Nella sua dimensione sociale, la libertà religiosa significa, tra
gli altri, il diritto di insegnare e di testimoniare pubblicamente la propria fede,
di nominare i propri ministri, di comunicare con le autorità e con le comunità religiose
che vivono in altri paesi, di costruire edifici religiosi. Oggi la Chiesa deve dare
risposte a tante di quelle situazioni dove tali diritti vengono violati.