L’Africa protagonista della 61.ma edizione Festival del cinema di Berlino
La trasmissione della violenza, il torbido della storia politica latino americana,
il cuore oscuro dell’Africa: raccontando il presente e il passato del mondo, tre film
hanno animato il programma della Berlinale in questi primi due giorni. “Yelling to
the sky”, opera prima della regista Victoria Mahoney, mette in scena la vicenda di
una ragazza afroamericana che adotta a stile di vita il comportamento aggressivo e
violento di cui è vittima nell’ambito familiare, fino al momento in cui comprende
che deve spezzare un tale circolo vizioso. Se il soggetto può sembrare alquanto semplice
e convenzionale, è dalla forma adottata che il film trae tutto il suo fascino: un
pedinamento dei personaggi che introduce lo spettatore nella carica di energia che
li pervade, fino a fargli sentire sulla sua propria pelle la tensione di un luogo
e di una situazione. Seppure con altri tempi e un altro procedimento formale, la stessa
sensazione si ricava dalla visione di “El premio”, altra opera prima, questa volta
di una cineasta argentina. Qui siamo trasportati ai tempi della dittatura militare
e soprattutto nel clima claustrofobico di una famiglia costretta alla clandestinità.
La protagonista vorrebbe vivere come le altre bambine della sua età, ma non può perché
è vincolata al segreto che tiene liberi e in vita i suoi genitori. L’occasione di
un tema scolastico la tradirà. Se in “Yelling to the sky”, il ritmo è veloce come
le battute dei personaggi, in “El premio”, la scelta è quella dei tempi lunghi, dilatati,
in cui l’emozione prende forma nel silenzio degli sguardi e dell’attesa. In “Sleeping
Sickness”, del tedesco Ulrich Köhler l’adesione ai luoghi e alle vicende filmate è
invece pressoché totale. Qui siamo in Africa, alle prese non solo con la malattia
del sonno, che dà il titolo al film, ma anche e soprattutto con quell’attrazione torbida,
irresistibile e talvolta malsana che ha legato i viaggiatori al continente africano
e che per anni i tutti quelli che ne tornavano hanno chiamato “mal d’Africa”. Già
fino dalla sequenza d’apertura, una lunga carrellata nella notte a bordo di una macchina
che porta il protagonista medico e la sua famiglia dall’aeroporto alla cittadina in
cui vivono, il tono della storia è chiaro: si tratta di un’incursione nel cuore delle
tenebre, una caduta libera nel cinismo della disperazione. La famiglia di lì a poco
si disgregherà e il medico non avrà che un funzionario dell’Organizzazione Mondiale
della Sanità a testimone della sua propria fine. Il film di Kohler, rispettoso dei
corpi e dei luoghi, onesto fino alla sgradevolezza nel mostrare le contraddizioni
degli uomini e delle istituzioni, pietoso nei confronti dei loro destini, è ellittico
e misterioso e ci lascia di fronte alla questione irrisolta di un continente, depredato
e martoriato, ancora alla ricerca del proprio futuro. (Da Berlino, Luciano Barisone)