Non più divisioni tra Italia, Slovenia, Croazia: così Napolitano in ricordo delle
Foibe
“Guardare avanti sarà il modo migliore di continuare a condividere il dolore dei familiari
delle vittime”: così il capo dello Stato italiano, Giorgio Napolitano, alla cerimonia
stamane al Quirinale per la giornata del ricordo delle Foibe. Si tratta degli eccidi
perpetrati per lo più ai danni della popolazione italiana di Istria, Venezia Giulia
e Dalmazia, ma anche di etnia slovena e croata, durante ed immediatamente dopo la
seconda guerra mondiale. “Finalmente – ha detto il presidente - possiamo far progredire
una prospettiva di feconda collaborazione tra Italia, Slovenia e Croazia superando
le divisioni del passato”. “L'essenziale – ha aggiunto - è non restare ostaggi degli
eventi laceranti del passato”. Napolitano poi ha invitato tutti a richiamarsi all'eredita'
del Risorgimento nello spirito di serene e riflessive celebrazioni del 150/mo dell'Unita'
d'Italia. Ma cosa ha rappresentato la violenza delle foibe e il dramma dell’esilio
per chi lo ha vissuto? Gabriella Ceraso lo ha chiesto a Lucio Toth presidente
dell'Associazione Nazionale Venezia-Giulia e Dalmazia, esule all’età di 8 anni da
Zara:
R. – Quello
che è stato fatto con le Foibe era tipico del modo di procedere dei regimi staliniani,
quello cioè di eliminare i nemici del popolo con lo strumento più feroce di soppressione,
di pulizia etnica, armata da un’ideologia di rivendicazioni sociali; però, in realtà,
finì per colpire immediatamente tutti. Poi, una cosa molto grave era anche il fatto
religioso: vennero proibite le feste, vennero proibite le cresime, i battesimi e 32
sacerdoti vennero uccisi.
D. – Che ricordo conserva delle persecuzioni,
dell’esilio?
R. - Il senso dello sradicamento. Già nel momento in cui
lasciai Zara avevo l’impressione che non sarei più tornato. Quindi, è stato questo
senso di sradicamento e, la cosa peggiore, di abbandono da parte dello Stato italiano,
perché i soldati italiani fuggirono dopo l’8 settembre e noi rimanemmo prima in balia
dei tedeschi e poi dei partigiani jugoslavi.
D. – Anche grazie a questa
giornata c’è sufficiente memoria, anche conoscenza di quanto accadde allora?
R.
– La gente cade dalle nuvole ancora oggi, anche persone di cultura. Anzi proprio a
livello popolare le persone anziane ricordano quegli anni per averli sentiti dai loro
amici. Ecco perché stiamo tanto lottando, perché dobbiamo passare alla seconda generazione
e poi alla terza. Una fortuna che abbiamo è che questa vicenda sia diventata un fatto
emblematico di come si possa essere perseguitati, perché oggi queste cose continuano
a succedere: nel Kosovo e in Bosnia ci sono ancora pericoli; fuori dall’Europa poi
abbiamo delle difficoltà per i cristiani o per le minoranze etniche.
D.
– Questi fatti voi come li vivete?
R. – I sentimenti che noi abbiamo
sono di grande di dolore quando viene incendiata una chiesa in Iraq, perché ci ricordiamo
quello che è successo da noi: non si poteva fare una processione che arrivavano i
miliziani di Tito a disperderla, cacciando i bambini, rimandandoli nelle scuole, con
i preti che fuggivano con l’ostensorio sotto la pianeta per proteggerlo dagli insulti.
Questi sono ricordi che tanti di noi hanno ancora negli occhi.
D. –
In merito invece all’identità italiana, per voi un valore, che effetto vi fanno le
polemiche e gli scetticismi?
R. – Noi sentiamo che la cultura e la lingua
sono un legame molto forte che va al di là delle condizioni economiche, che certamente
in Italia sono diventate molto dispari, ma questo non è certo colpa dei meridionali.
Quindi, un federalismo solidale che desse alle regioni e ai comuni maggiore autonomia
e libertà nella gestione delle riforme, per noi è una cosa positiva, purché non sia
l’anticamera di una divisione del Paese: le sirene della secessione ci offendono.
D. – Qual è l’insegnamento da trarre dalla vostra storia che dia contenuto
a questo anniversario?
R. – Il rispetto per la persona, la fiducia nella
persona umana che va la di là delle differenze politiche, religiose, delle differenze
etniche. Quando leggo le memorie di queste persone trovo il partigiano che veniva
a bussare alla porta, la stessa porta alla quale due mesi prima veniva a bussare il
soldato delle SS per portarci via un fratello, e poi tornano i “drusi”, come li chiamavamo
noi, i partigiani jugoslavi, con la stessa violenza, per portare via un altro fratello
e fucilare l’uno e l’altro: abbiamo vissuto questa esperienza duplice, quindi sappiamo
bene che il vero nemico non si chiama “A” o “B”, ma è chi viola la sacralità della
persona umana.(bf)