Egitto. 15.mo giorno di proteste. Mubarak vara una Commissione per la riforma costituzionale
Nuova giornata di proteste in Egitto. Anche oggi sono migliaia al Cairo i manifestanti
presenti in piazza Tahrir, simbolo della rivolta che ormai prosegue da 15 giorni,
per chiedere le dimissioni di Hosni Mubarak. Nel Paese, intanto, sono attesi nuovi
negoziati tra governo e opposizione. Da sottolineare, poi, che il presidente egiziano
ha istituito una Commissione per monitorare il processo di riforma della Costituzione.
Il servizio di Amedeo Lomonaco:
Piazza Tahrir
si conferma l’ago della bilancia della politica egiziana. Sono migliaia coloro
che restano in piazza per partecipare ad una nuova giornata di mobilitazione. Hanno
promesso di proseguire nella protesta fino a quando il presidente Hosni Mubarak
non si dimetterà. I manifestanti, che hanno creato un loro quotidiano “Midan
al Tahrir”, chiedono anche riforme costituzionali e garanzie di una
completa libertà di informazione. Mubarak, che oggi ha istituito una
Commissione incaricata di supervisionare il processo di riforma costituzionale,
ha però ribadito di non voler dimettersi. Il capo di Stato egiziano ha anche rivendicato
alcune aperture, tra cui un aumento di salari e la richiesta di creare una Commissione
d’inchiesta imparziale sulle violenze dei giorni scorsi. Violenze che, secondo Human
Rights Watch, hanno provocato finora almeno 297 morti. Fonti locali riferiscono poi
che da giorni non si hanno notizie di diverse persone. Ufficialmente sono scomparse
ma si teme che siano state prelevate dai servizi segreti egiziani. Intanto,
sul precario equilibrio dello scenario politico egiziano potrebbero pesare
le sempre maggiori pressioni internazionali, soprattutto di Stati Uniti ed Israele.
Barack Obama ha ribadito, nei giorni scorsi, il proprio appello per una transizione
“ordinata” che porti ad un “governo rappresentativo”. In Israele, invece, si teme
che la rivolta possa portare gruppi integralisti al potere e alla fondazione nel,
post Mubarak, di un emirato islamico.
L’incertezza politica, dunque, preoccupa
sempre più gli Stati Uniti e i suoi alleati per le possibili ricadute negative sull’intero
processo di pace mediorientale. Sentiamo Antonio Ferrari, inviato speciale
del Corriere della Sera, intervistato da Stefano Leszczynski:
R. – E’ inevitabile
che tutto questo porti a qualche cosa che non sappiamo quali sbocchi possa avere:
ecco i timori di Israele! I “fratelli musulmani” potrebbero essere tentati, nonostante
il loro prudente tatticismo di oggi, a diventare più forti e dominanti contando sul
fatto di essere stati vittime di oppressione politica da parte del regime di Mubarak;
oppure ci potrebbero anche essere altre forze che, agli occhi e alle orecchie esperte
di Israele, potrebbero suonare come pericolose e potrebbero anche mettere in discussione
il trattato di pace tra Egitto e Israele.
D. – Quali sono gli equilibri
fondamentali che si reggono su questo trattato?
R. – Pensiamo soltanto
alla fornitura di gas: credo che Israele dipenda dal gas egiziano per il 40-50 per
cento, quindi un’enormità.
D. – In questo contesto quello che sorprende
un po’ oggi è la posizione degli Stati Uniti: insomma, la situazione sembra quasi
sfuggire loro di mano e Mubarak è ancora lì …
R. - Secondo me era molto
ingenuo e molto da “jacquerie” infantile pensare che tutto si sarebbe risolto come
in Tunisia, come hanno pensato in tanti: Mubarak se ne andrà … Mubarak non se ne va,
anche perché Mubarak è espressione del potere militare e non viceversa. Gli Stati
Uniti hanno sempre avuto un rapporto speciale con il potere militare egiziano, esattamente
come quello che hanno avuto con il potere militare turco. E’ chiaro che oggi l’America
è confusa: i militari restano la forza che ha condizionato il passato e che condizionerà
il futuro. Il fatto che le forze armate non siano intervenute e, anzi, abbiano fraternizzato
quasi con i dimostranti dimostra una semplice cosa: i militari saranno ancora una
volta il baricentro che può garantire la stabilità.
D. – L’Egitto ha
subito un danno enorme da un punto di vista economico, ma allo stesso tempo c’è il
timore che ci possa essere una fuga di capitali …
R. – Ci sono grandi
industrie, anche multinazionali, che hanno in Egitto il loro punto di riferimento,
che ai loro vertici hanno generali, personaggi dell’esercito, quindi di quell’apparato
“industrial-militare” che ha sempre rappresentato il potere più grande dell’Egitto.
Dall’altra parte, c’è la necessità di finanziare l’aumento del 15 per cento di stipendi
e pensioni, che porterà naturalmente a un aumento dell’inflazione ma che era necessario
- visto che gran parte della rivolta era anche dovuta agli aumenti dei prezzi dei
generi di prima necessità - anche per cercare di compensare con qualche passo concreto
le sofferenze della gente. (bf)