Rivolta in Egitto, almeno 5 morti. Il ruolo del web nelle proteste, "sesto potere"
che mobilita la piazza
In Egitto, sono almeno 5 le persone morte a causa delle violenze scoppiate ieri durante
le manifestazioni antigovernative. Il Ministero degli interni ha vietato altre dimostrazioni,
ma l’opposizione ha già annunciato altre proteste. Nel mirino c’è il presidente egiziano,
Hosni Mubarak, e il suo governo. Il servizio di Marco Guerra:
Si sono riversati
a decine di migliaia nelle strade del Cairo per chiedere riforme politiche e sociali,
sul modello di quanto avvenuto in Tunisia. Una mobilitazione che si è trasformata
in scontro aperto con le forze dell'ordine e che ha lasciato sul terreno cinque vittime,
fra le quali un poliziotto deceduto dopo essere stato travolto dalla folla negli scontri
a piazza Taharir, nella capitale. Secondo alcune Ong arabe, sono almeno 400 le persone
fermate finora nel corso delle proteste antigovernative.Allontanare
dalla scena politica il presidente Mubarak e il figlio Gamal, suo probabile delfino,
è la richiesta che si leva dai movimenti di opposizione egiziana che promettono di
scendere in piazza fino a quando non cadrà il governo. In mattinata, il movimento
giovanile "6 aprile" ha nuovamente convocato i suoi militanti per le strade del Cairo,
nonostante il Ministero dell'interno abbia vietato qualsiasi manifestazione in tutto
il Paese. Gli organizzatori della protesta contano sull'effetto traino della
Tunisia, i cui eventi hanno acceso il dibattito politico fra gli egiziani. Anche il
Premio Nobel per la pace ed ex direttore dell'Agenzia internazionale per l'Energia
Atomica (Aiea), Mohamed El Baradei, ha espresso con toni insolitamente duri il suo
sostegno ai manifestanti che, oltre all'uscita di scena di Mubarak, chiedono la formazione
di un governo di unità nazionale e nuove elezioni parlamentari. La situazione viene
seguita con attenzione da tutta la comunità internazionale, che attende di capire
se si tratta di proteste per simpatia con i Paesi vicini o se si è in presenza
di una prima serie di manifestazioni che possano portare a un cambio d’assetto del
potere politico.
Sulle possibili similitudini tra la rivolta in Egitto
e quella che ha portato in Tunisia alle dimissioni del presidente Ben Ali Stefano
Leszczynski ha intervistato Adib Fateh Alì, giornalista esperto di questioni
arabe:
R. - Qui
c’è una protesta di carattere sociale, contro il carovita e la disoccupazione, anche
se in fondo latita un problema di carattere politico. Secondo me, rispetto alla protesta
spontanea della Tunisia - nella quale i tunisini guardano verso l’Europa per un Paese
più democratico, istituzioni più democratiche - in Egitto si vede invece in sottofondo
la presenza dei fondamentalisti, che sicuramente rischia di cavalcare questa protesta.
Sullo sfondo c’è l’ostilità verso un governo che ha fatto pace con Israele, che ha
preso posizione nei confronti di Hamas con l’embargo…
D. - Quindi, una
posizione molto delicata quella internazionale dell’Egitto. A questo punto l’Occidente,
in particolare gli Stati Uniti, potrebbero decidere di puntare su El Baradei?
R.
- El Baradei, l’ex direttore dell’Aiea, promette di candidarsi alle presidenziali
e potrebbe assorbire comunque la parte della protesta. Il rischio maggiore è quello
del movimento dei Fratelli musulmani. Puntare su El Baradei potrebbe essere una carta
che, secondo me, è difficile possa avere successo in tempi rapidi. L’Egitto è un Paese
fondamentale per gli equilibri strategici in Medio Oriente. La popolazione di quel
Paese è un terzo dell’intera popolazione araba e quindi quello che avviene in Egitto
ha un’influenza fortissima sugli equilibri di tutta l’area.
D. - Una
risposta invece rapida a quelle che sono le richieste dei manifestanti, e cioè immediate
riforme di tipo economico e sociale sarebbe possibile?
R. - Le richieste
sono una facciata. Le riforme principali che chiedono sono quelle della democrazia
e di riformare la Costituzione: la rivendicazione principale sono le riforme democratiche.
Secondo me, siamo agli inizi di un processo di trasformazione che mi auguro prenda
una direzione verso la democrazia e non a favore del fondamentalismo islamico. (ap)
Ancora
una volta, come in Tunisia, la protesta è partita da Internet. Anche in Egitto le
manifestazioni sono state organizzate attraverso social network come Facebook o Twitter.
I nuovi media si rivelano, dunque, inediti strumenti di partecipazione popolare, come
sottolinea al microfono di Amedeo Lomonaco la prof.ssa Donatella Pacelli,
docente di Sociologia della comunicazione presso la Libera Università Maria Ss. Assunta
di Roma:
R. – Gli
esempi che abbiamo nella cronaca internazionale di oggi ci fanno vedere che un particolare
uso delle nuove tecnologie può riattivare il corpo sociale, riqualificarlo come un
attore individuale e collettivo, che vuole costruire democrazia attraverso una maggiore
partecipazione. In quei contesti, stiamo assistendo a questo. Vediamo una rincorsa
verso una nuova forma di partecipazione e di comunicazione, due processi che in realtà
non sono sempre andati poi così d’accordo. Tant’è che molti entusiasti dei nuovi media
– ma io vedo anche le "ombre" – dicono: “Finalmente usciamo dal verticismo di una
informazione gestita da quello che una volta si chiamava quarto e quinto potere”.
Su Internet c’è chi dice si stia formando il “sesto potere”, ovvero quello della popolazione,
della società civile.
D. – Internet e il mondo arabo: può cambiare
realmente qualcosa attraverso la diffusione di Internet?
R. – Può concorrere.
I media possono sempre essere fattori di promozione e di sviluppo, tanto più in quei
contesti che ancora vivono una forte chiusura sociale. Il rapporto tra gli strumenti
di comunicazione e la cultura è sempre a due vie: i media riusciranno a promuovere
cambiamento, sviluppo e quindi apertura in ambito culturale, se già c’è uno spirito
del tempo. Possono essere moltiplicatori dello sviluppo, non crearlo.
D.
– Possono anche essere, però, promotori di una sorta di rivoluzione digitale, che
poi deve portare i regimi autocratici - comunque - a dover fare i conti con questo
nuovo fenomeno…
R. – Certamente, la cultura e la cultura politica in
particolare e tutto ciò che è già stato prodotto e costruito deve sicuramente fare
i conti con queste nuove forme di protesta. Dobbiamo anche capire, però, se sanno
interpretare i linguaggi di questa protesta. Il discorso del linguaggio è sempre importante
aprirlo, perché il linguaggio implica un mondo di riferimento e allora dobbiamo pensare
che ci siano già delle generazioni abilitate ad un uso consapevole del linguaggio
dei nuovi media e che, dall’altra parte – parliamo delle istituzioni politiche – ci
sia anche la capacità di dialogare con questo linguaggio. (mg)