I figli al centro della risoluzione delle crisi familiari, tema di confronto in un
convegno a Roma
Ogni anno in Italia 84 mila separazioni e 53 mila divorzi coinvolgono 150 mila bambini,
spesso posti al centro di scontri tra padre e madre e vittime dell’allontanamento
di un genitore ad opera di quello affidatario. Questi minori rischiano di sviluppare
disturbi psicologici, comportamentali, alimentari, di dipendenza o autolesionismo,
che in una parola sono riassunti nella sigla Pas, la “Sindrome da alienazione parentale”.
Se ne è parlato nei giorni scorsi a Roma in un convegno promosso dall’Associazione
avvocati matrimonialisti italiani. “Nella risoluzione di crisi familiari occorre dare
centralità ai figli”, ha commentato l’avvocato matrimonialista, Anna Maria Panfìli.
Paolo Ondarza l’ha intervistata:
R. – Nell’ambito
dei procedimenti è molto importante dare davvero – quello che la legge dice – un valore
preminente all’interesse dei figli. Questo si può fare se collaborano tutti gli operatori:
gli avvocati, i giudici e anche le parti che sono in lite. Poi c’è un aspetto culturale,
che è quello che impone di capire che i bambini, all’interno della separazione, soffrono
e soffrono tanto. Dire loro che sono molti i bambini che hanno i genitori separati
non basta, li fa sentire fuori posto e, a volte, in colpa, perché fa dire loro: “Sto
male! Perché sto così male?”
D. – Gli psichiatri e gli psicologi spiegano
che i bambini, vittime di scontri tra genitori, rischiano di sviluppare seri disturbi
psicologici comportamentali, alimentari o addirittura di dipendenza...
R.
– Sì, è certamente il frutto dell’incapacità degli adulti di dare una soggettività
al bambino. Quando il bambino diventa lo strumento di un genitore per fare lotta all’altro
è evidente che perde la sua identità.
D. – Sicuramente, il contesto
che circonda la coppia intenzionata a divorziare o a separarsi non aiuta i bambini
coinvolti...
R. – Sì, la nostra è una civiltà molto contraddittoria,
perché da un lato si moltiplicano le carte dei diritti del bambino, dall’altra, però,
ancora non è cresciuta la sensibilità generale che afferma che il bambino è una persona
in relazione con la sua famiglia, che ha un’identità dipendente dalle sue relazioni
familiari. Tutto questo deve diventare un lavoro di approfondimento da sviluppare
in tutti gli ambiti: ad esempio, nella formazione degli operatori che si occupano
del conflitto familiare e, quindi, anche nella formazione degli avvocati e dei magistrati
minorili.
D. – Nell’ultimo ventennio, sono state 84 mila le separazioni
e 53 mila i divorzi ogni anno: un dato che non può lasciare indifferenti. Ma quanto
si fa per sostenere le coppie con figli in difficoltà?
R. – Poco, sempre
troppo poco… Io non vedo, ad esempio, lavoro di sostegno per una possibile riconciliazione.
Questa è davvero una grandissima carenza del nostro sistema. E’ vero che c’è il tentativo
obbligatorio di conciliazione in tutte le separazioni, ma chi lavora in questo ambito
sa benissimo che è una formalità. E’ anche vero che c’è l’offerta sul territorio di
questo servizio di mediazione, che dovrebbe prevenire la crisi familiare, ma non è
pubblicizzato, e oggi è più rivolto a contenere il conflitto una volta che è esploso.
Credo che occorra una più capillare distribuzione del servizio di sostegno alle funzioni
genitoriali e alla coppia, e anche una più diffusa chiarezza sul valore del matrimonio
e della stabilità delle relazioni, perché oggi è il contrario quello che ci viene
proposto: e cioè che liberarsi della persona con cui ci si è sposati è cosa buona.
Non voglio dire che non ci siano delle situazioni davvero drammatiche, che non si
possono più ricomporre, ma molte delle situazioni sarebbero contenibili se fossero
prese in tempo.(ap)