Europa: l'economia cresce poco. Italia: disoccupazione giovanile quasi al 29 per cento
Il Prodotto Interno Lordo in Europa continua a crescere, ma in modo debole. Il Pil
dei sedici Paesi della zona dell’euro e dell’Unione europea è infatti aumentato dello
0,3% nel terzo trimestre dell’anno, secondo Eurostat. Il dato è stato rivisto al ribasso
rispetto allo 0,4% della stima pubblicata a novembre scorso. Per il presidente della
Bce, la Banca Centrale Europea, Jean Claude Trichet, i Paesi europei devono concentrarsi
sul “consolidamento di bilancio per rafforzare il potenziale di crescita delle economie”.
Adesso - ha sottolineato - è l'ora che ogni Paese si assuma le sue responsabilità
perché la Bce, nel campo della politica monetaria, non può sostituire la irresponsabilità
di nessuno. In Italia, intanto, i dati Istat mettono in luce un aumento della disoccupazione
giovanile, salita al 28,9 per cento. Alessandro Guarasci ha intervistato l’economista
Luigi Paganetto.
R. - E’ chiaro
che sta accadendo qualcosa di nuovo: è la capacità di un’area del mondo – di più aree
del mondo – di crescere, e dell’area europea di non crescere abbastanza. Questo è
un punto veramente importante perché se non mettiamo in moto la crescita, anche il
problema del debito pubblico, anche i problemi del deficit si aggravano piuttosto
che risolversi.
D. - Professore, secondo lei, in Italia e in Europa
la crisi è ancora troppo debole e soprattutto, da quali fattori dipende questa debolezza?
R.
- Io credo dalla nostra difficoltà a realizzare prodotti nuovi, a misurarci con le
sfide dei Paesi che stanno cambiando. La Germania è l’unico Paese che progredisce,
ma non bisogna dimenticare che la Germania ha fatto degli investimenti importanti
sulle innovazioni tecnologiche.
D. - Secondo lei, c’è il rischio di
una crescita debole accompagnata da una disoccupazione addirittura in aumento?
R.
- Anche se la disoccupazione non fosse in aumento, quello che preoccupa è l’assenza
di qualsiasi segnale d’inversione della rotta. Non bisogna dimenticare che se è vero
che sono stati messi in cassa integrazione tutti quelli che hanno perduto la possibilità
di lavorare nelle fabbriche perché le fabbriche non hanno ordinativi, è vero anche
che questo è un “provvedimento-tampone” a cui bisogna rispondere con la capacità del
sistema industriale di trovare nuove opportunità. Altrimenti, il rischio è che si
guardi al mantenimento di una situazione nel tentativo di evitare quindi - come è
giusto che sia - difficoltà per le famiglie, che però ci sono comunque perché l’indennità
che queste famiglie ricevono certamente non equivalgono allo stipendio precedentemente
percepito. Inoltre, la prospettiva che manca è quella del futuro e questo riguarda
soprattutto i giovani.
D. - Questo vuol dire che c’è ancora troppo poca
flessibilità in entrata oppure il meccanismo in qualche modo si è inceppato?
R.
– Direi che il meccanismo di creazione di nuove opportunità si è proprio inceppato.
Non bisogna dimenticare che il cambiamento è l’elemento fondamentale di qualunque
sistema economico. Per far “riprendere la macchina” bisogna immaginare politiche che
a parità di spese, senza incidere sul bilancio - e si può fare - facciano aumentare
la competitività del sistema e soprattutto facciano aumentare il grado di concorrenza
di aree importanti dell’economia italiana. Bisogna muoversi da questa situazione in
cui, alla fine, rischiamo di tutelare sì, in maniera parziale, le famiglie ma non
i giovani. Questo dovremmo cercare di superarlo. (bf)