Dio ci ama perché possiamo anche noi amare: così il Papa nella Messa della Notte di
Natale
Il Papa nell’omelia della Messa della Notte di Natale ha affermato che Dio, “proprio
nella debolezza dell’essere bambino … è il Dio forte e ci mostra così, di fronte ai
poteri millantatori del mondo, la fortezza propria di Dio”. Con l’Incarnazione del
Verbo “l’infinita distanza tra Dio e l’uomo è superata. Dio non si è soltanto chinato
verso il basso, come dicono i Salmi; Egli è veramente ‘disceso’, entrato nel mondo,
diventato uno di noi per attrarci tutti a sé. Questo bambino è veramente l’Emmanuele
– il Dio-con-noi … Questo bambino ha acceso negli uomini la luce della bontà e ha
dato loro la forza di resistere alla tirannia del potere. In ogni generazione Egli
costruisce il suo regno dal di dentro, a partire dal cuore. Ma è anche vero che ‘il
bastone dell’aguzzino’ non è stato spezzato. Anche oggi marciano rimbombanti i calzari
dei soldati e sempre ancora e sempre di nuovo c’è il ‘mantello intriso di sangue’
(Is 9,3s).”. Tuttavia, Egli “inaugura per noi l’essere in comunione con Dio. Egli
crea la vera fratellanza” e “ci ama affinché noi possiamo diventare persone che amano
insieme con Lui e così possa esservi pace sulla terra”. Ecco il testo integrale dell’omelia
del Papa:
Cari fratelli
e sorelle!
„Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato“ – con questa
parola del Salmo secondo, la Chiesa inizia la liturgia della Notte Santa. Essa sa
che questa parola originariamente apparteneva al rituale dell’incoronazione dei re
d’Israele. Il re, che di per sé è un essere umano come gli altri uomini, diventa “figlio
di Dio” mediante la chiamata e l’insediamento nel suo ufficio: è una specie di adozione
da parte di Dio, un atto di decisione, mediante il quale Egli dona a quell’uomo una
nuova esistenza, lo attrae nel suo proprio essere. In modo ancora più chiaro la lettura
tratta dal profeta Isaia, che abbiamo appena ascoltato, presenta lo stesso processo
in una situazione di travaglio e di minaccia per Israele: “Un bambino è nato per noi,
ci è stato dato un figlio. Sulle sue spalle è il potere” (9,5). L’insediamento nell’ufficio
del re è come una nuova nascita. Proprio come nuovo nato dalla decisione personale
di Dio, come bambino proveniente da Dio, il re costituisce una speranza. Sulle sue
spalle poggia il futuro. Egli è il detentore della promessa di pace. Nella notte di
Betlemme, questa parola profetica è diventata realtà in un modo che al tempo di Isaia
sarebbe stato ancora inimmaginabile. Sì, ora è veramente un bambino Colui sulle cui
spalle è il potere. In Lui appare la nuova regalità che Dio istituisce nel mondo.
Questo bambino è veramente nato da Dio. È la Parola eterna di Dio, che unisce l’una
all’altra umanità e divinità. Per questo bambino valgono i titoli di dignità che il
cantico d’incoronazione di Isaia gli attribuisce: Consigliere mirabile – Dio potente
– Padre per sempre – Principe della pace (9,5). Sì, questo re non ha bisogno di consiglieri
appartenenti ai sapienti del mondo. Egli porta in se stesso la sapienza e il consiglio
di Dio. Proprio nella debolezza dell’essere bambino Egli è il Dio forte e ci mostra
così, di fronte ai poteri millantatori del mondo, la fortezza propria di Dio.
Le
parole del rituale dell’incoronazione in Israele, in verità, erano sempre soltanto
rituali di speranza, che prevedevano da lontano un futuro che sarebbe stato donato
da Dio. Nessuno dei re salutati in questo modo corrispondeva alla sublimità di tali
parole. In loro, tutte le parole sulla figliolanza di Dio, sull’insediamento nell’eredità
delle genti, sul dominio delle terre lontane (Sal 2,8) restavano solo rimando a un
avvenire – quasi cartelli segnaletici della speranza, indicazioni che conducevano
verso un futuro che in quel momento era ancora inconcepibile. Così l’adempimento della
parola che inizia nella notte di Betlemme è al contempo immensamente più grande e
– dal punto di vista del mondo – più umile di ciò che la parola profetica lasciava
intuire. È più grande, perché questo bambino è veramente Figlio di Dio, veramente
“Dio da Dio, Luce da Luce, generato, non creato, della stessa sostanza del Padre”.
L’infinita distanza tra Dio e l’uomo è superata. Dio non si è soltanto chinato verso
il basso, come dicono i Salmi; Egli è veramente “disceso”, entrato nel mondo, diventato
uno di noi per attrarci tutti a sé. Questo bambino è veramente l’Emmanuele – il Dio-con-noi.
Il suo regno si estende veramente fino ai confini della terra. Nella vastità universale
della santa Eucaristia, Egli ha veramente eretto isole di pace. Ovunque essa viene
celebrata si ha un’isola di pace, di quella pace che è propria di Dio. Questo bambino
ha acceso negli uomini la luce della bontà e ha dato loro la forza di resistere alla
tirannia del potere. In ogni generazione Egli costruisce il suo regno dal di dentro,
a partire dal cuore. Ma è anche vero che “il bastone dell’aguzzino” non è stato spezzato.
Anche oggi marciano rimbombanti i calzari dei soldati e sempre ancora e sempre di
nuovo c’è il “mantello intriso di sangue” (Is 9,3s). Così fa parte di questa notte
la gioia per la vicinanza di Dio. Ringraziamo perché Dio, come bambino, si dà nelle
nostre mani, mendica, per così dire, il nostro amore, infonde la sua pace nel nostro
cuore. Questa gioia, tuttavia, è anche una preghiera: Signore, realizza totalmente
la tua promessa. Spezza i bastoni degli aguzzini. Brucia i calzari rimbombanti. Fa
che finisca il tempo dei mantelli intrisi di sangue. Realizza la promessa: “La pace
non avrà fine” (Is 9,6). Ti ringraziamo per la tua bontà, ma ti preghiamo anche: mostra
la tua potenza. Erigi nel mondo il dominio della tua verità, del tuo amore – il “regno
della giustizia, dell’amore e della pace”.
“Maria diede alla luce il
suo figlio primogenito” (Lc 2,7). Con questa frase, san Luca racconta, in modo assolutamente
privo di pathos, il grande evento che le parole profetiche nella storia di Israele
avevano intravisto in anticipo. Luca qualifica il bambino come “primogenito”. Nel
linguaggio formatosi nella Sacra Scrittura dell’Antica Alleanza, “primogenito” non
significa il primo di una serie di altri figli. La parola “primogenito” è un titolo
d’onore, indipendentemente dalla questione se poi seguono altri fratelli e sorelle
o no. Così, nel Libro dell’Esodo (Es 4,22), Israele viene chiamato da Dio “il mio
figlio primogenito”, e con ciò si esprime la sua elezione, la sua dignità unica, l’amore
particolare di Dio Padre. La Chiesa nascente sapeva che in Gesù questa parola aveva
ricevuto una nuova profondità; che in Lui sono riassunte le promesse fatte ad Israele.
Così la Lettera agli Ebrei chiama Gesù “il primogenito” semplicemente per qualificarLo,
dopo le preparazioni nell’Antico Testamento, come il Figlio che Dio manda nel mondo
(cfr Eb 1,5-7). Il primogenito appartiene in modo particolare a Dio, e per questo
egli – come in molte religioni – doveva essere in modo particolare consegnato a Dio
ed essere riscattato mediante un sacrificio sostitutivo, come san Luca racconta nell’episodio
della presentazione di Gesù al tempio. Il primogenito appartiene a Dio in modo particolare,
è, per così dire, destinato al sacrificio. Nel sacrificio di Gesù sulla croce, la
destinazione del primogenito si compie in modo unico. In se stesso, Egli offre l’umanità
a Dio e unisce uomo e Dio in modo tale che Dio sia tutto in tutti. Paolo, nelle Lettere
ai Colossesi e agli Efesini, ha ampliato ed approfondito l’idea di Gesù come primogenito:
Gesù, ci dicono tali Lettere, è il Primogenito della creazione – il vero archetipo
dell’uomo secondo cui Dio ha formato la creatura uomo. L’uomo può essere immagine
di Dio, perché Gesù è Dio e Uomo, la vera immagine di Dio e dell’uomo. Egli è il primogenito
dei morti, ci dicono inoltre queste Lettere. Nella Risurrezione, Egli ha sfondato
il muro della morte per tutti noi. Ha aperto all’uomo la dimensione della vita eterna
nella comunione con Dio. Infine, ci viene detto: Egli è il primogenito di molti fratelli.
Sì, ora Egli è tuttavia il primo di una serie di fratelli, il primo, cioè, che inaugura
per noi l’essere in comunione con Dio. Egli crea la vera fratellanza – non la fratellanza,
deturpata dal peccato, di Caino ed Abele, di Romolo e Remo, ma la fratellanza nuova
in cui siamo la famiglia stessa di Dio. Questa nuova famiglia di Dio inizia nel momento
in cui Maria avvolge il “primogenito” in fasce e lo pone nella mangiatoia. Preghiamolo:
Signore Gesù, tu che hai voluto nascere come primo di molti fratelli, donaci la vera
fratellanza. Aiutaci perché diventiamo simili a te. Aiutaci a riconoscere nell’altro
che ha bisogno di me, in coloro che soffrono o che sono abbandonati, in tutti gli
uomini, il tuo volto, ed a vivere insieme con te come fratelli e sorelle per diventare
una famiglia, la tua famiglia.
Il Vangelo di Natale ci racconta, alla
fine, che una moltitudine di angeli dell’esercito celeste lodava Dio e diceva: “Gloria
a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli ama.” (Lc 2,14).
La Chiesa ha amplificato questa lode, che gli angeli hanno intonato di fronte all’evento
della Notte Santa, facendone un inno di gioia sulla gloria di Dio. “Ti rendiamo grazie
per la tua gloria immensa”. Ti rendiamo grazie per la bellezza, per la grandezza,
per la bontà di Dio, che in questa notte diventano visibili a noi. L’apparire della
bellezza, del bello, ci rende lieti senza che dobbiamo interrogarci sulla sua utilità.
La gloria di Dio, dalla quale proviene ogni bellezza, fa esplodere in noi lo stupore
e la gioia. Chi intravede Dio prova gioia, e in questa notte vediamo qualcosa della
sua luce. Ma anche degli uomini parla il messaggio degli angeli nella Notte Santa:
“Pace agli uomini che egli ama”. La traduzione latina di tale parola, che usiamo nella
liturgia e che risale a Girolamo, suona diversamente: “Pace agli uomini di buona volontà”.
L’espressione “gli uomini di buona volontà” proprio negli ultimi decenni è entrata
in modo particolare nel vocabolario della Chiesa. Ma quale traduzione è giusta? Dobbiamo
leggere ambedue i testi insieme; solo così comprendiamo la parola degli angeli in
modo giusto. Sarebbe sbagliata un’interpretazione che riconoscesse soltanto l’operare
esclusivo di Dio, come se Egli non avesse chiamato l’uomo ad una risposta libera di
amore. Sarebbe sbagliata, però, anche un’interpretazione moralizzante, secondo cui
l’uomo con la sua buona volontà potrebbe, per così dire, redimere se stesso. Ambedue
le cose vanno insieme: grazia e libertà; l’amore di Dio, che ci previene e senza il
quale non potremmo amarLo, e la nostra risposta, che Egli attende e per la quale,
nella nascita del suo Figlio, addirittura ci prega. L’intreccio di grazia e libertà,
l’intreccio di chiamata e risposta non lo possiamo scindere in parti separate l’una
dall’altra. Ambedue sono inscindibilmente intessute tra loro. Così questa parola è
insieme promessa e chiamata. Dio ci ha prevenuto con il dono del suo Figlio. Sempre
di nuovo Dio ci previene in modo inatteso. Non cessa di cercarci, di sollevarci ogniqualvolta
ne abbiamo bisogno. Non abbandona la pecora smarrita nel deserto in cui si è persa.
Dio non si lascia confondere dal nostro peccato. Egli ricomincia sempre nuovamente
con noi. Tuttavia aspetta il nostro amare insieme con Lui. Egli ci ama affinché noi
possiamo diventare persone che amano insieme con Lui e così possa esservi pace sulla
terra.
Luca non ha detto che gli angeli hanno cantato. Egli scrive molto
sobriamente: l’esercito celeste lodava Dio e diceva: “Gloria a Dio nel più alto dei
cieli…” (Lc 2,13s). Ma da sempre gli uomini sapevano che il parlare degli angeli è
diverso da quello degli uomini; che proprio in questa notte del lieto messaggio esso
è stato un canto in cui la gloria sublime di Dio ha brillato. Così questo canto degli
angeli è stato percepito fin dall’inizio come musica proveniente da Dio, anzi, come
invito ad unirsi nel canto, nella gioia del cuore per l’essere amati da Dio. Cantare
amantis est, dice Agostino: cantare è cosa di chi ama. Così, lungo i secoli, il canto
degli angeli è diventato sempre nuovamente un canto di amore e di gioia, un canto
di coloro che amano. In quest’ora noi ci associamo pieni di gratitudine a questo cantare
di tutti i secoli, che unisce cielo e terra, angeli e uomini. Sì, ti rendiamo grazie
per la tua gloria immensa. Ti ringraziamo per il tuo amore. Fa che diventiamo sempre
di più persone che amano insieme con te e quindi persone di pace. Amen.