A Pontedecimo il 65.mo suicidio in un carcere italiano del 2010. La riflessione del
cappellano del penitenziario, don Mario Montaldo
Ancora un suicidio nei penitenziari italiani è il 65.mo dall’inizio dell’anno. Due
giorni fa, nel carcere di Genova Pontedecimo un detenuto italiano di 24 anni si è
impiccato. Solo poche ore prima, anche un suo compagno di cella aveva tentato il suicidio.
È il terzo caso in Italia in meno di una settimana: nella sola giornata di sabato,
due reclusi si sono tolti la vita negli istituti Preturo dell’Aquila e Vassone di
Como. Sulle condizioni di vita all’interno del carcere genovese di Pontedecimo, Paolo
Ondarza ha intervistato il cappellano don Mario Montaldo:
R. – Ritengo
che sia una delle carceri dove vorrei "vivere", se dovessi essere messo in carcere.
Essendo piccolo, non ha quella faccia austera del carcere. I carcerati tra di loro
familiarizzano.
D. – Se non è la struttura a presentare particolari
problemi, da un punto di vista igienico, da un punto di vista di convivenza dei detenuti,
a cosa si devono i casi di suicidio e tentato suicidio degli ultimi giorni?
R.
– C’è sempre la disperazione di un carcere che ti priva della libertà, ovvero il maggior
dono che, creandolo, Dio fece all’uomo. Anche se il carcere fosse d’oro e avesse tutti
i comfort, senza la libertà è finita.
D. – E quale potrebbe essere secondo
lei, alla luce della sua esperienza, una proposta, una soluzione alternativa?
R.
– Per quelli che non sono delitti gravi, come lo è l’omicidio, cioè per i fatti singoli,
furtarelli o reati di droga si dovrebbero trovare altre soluzioni, magari anche di
tipo pecuniario, perché io vedo che quando si è toccati dal punto di vista economico,
quando si devono pagare le multe per eccesso di velocità, questo pesa e si sta attenti
a non farlo più.
D. – Molti sottolineano come l’avvicinarsi del Natale
accentui la condizione di solitudine dei detenuti...
R. – La domenica
mi riempiono di bigliettini, dove mi chiedono di telefonare alla mamma, alla famiglia
e così via. Questo è il denominatore comune di tutti quelli che sono in carcere: il
pensiero e la nostalgia dei parenti del cuore, che hanno lasciato fuori. (ap)