L'Europa e la moneta unica nell'epoca della crisi. L'opinione dell'esperto, Paolo
Savona
Dopo la crisi greca, l’economia europea è ora colpita anche da quella irlandese. Di
fronte a questi nuovi squilibri ci si interroga, in particolare, sul ruolo della moneta
unica, l’euro, nel contesto di un mercato complesso come quello comunitario. Secondo
alcuni economisti, il ritorno alla moneta unica nazionale potrebbe portare diversi
Paesi ad un rilancio di competitività, grazie ad un cambio più favorevole. Ma quanto
è realistico pensare ad un abbandono dell’euro? Risponde al microfono di Luca Collodi,
il prof. Paolo Savona, economista e preside della Facoltà di Scienze Politiche
dell’Università “Guglielmo Marconi” di Roma:
R. – Il problema
è se questa sia una scelta o se sia un risultato inevitabile, che emergerà - prima
o dopo - se non si passa all’unione politica.
D. – Lei non esclude l’evenienza
di tornare alla lira, al marco, al franco e ad altre monete europee?
R.
– Un Paese serio - come io penso che sia tuttora il nostro Paese - deve avere un programma,
un’ipotesi, un "piano B", che preveda anche questa possibilità. Non è detto che non
ci sia, noi non lo sappiamo. Io sollecito, quindi, le autorità dicendo: dove necessario,
noi siamo pronti a fronteggiare un evento di questa natura. A mio avviso, bisognerebbe
aprire un serio dibattito: l’euro è stato creato con l’idea che dovesse essere il
veicolo principale per l’unione politica. Questo, a mio avviso, non si è realizzato.
Non si è realizzato soprattutto per quei Paesi che hanno respinto la costituzione
proposta un paio di anni fa: tra questi c’è la Francia, ancor prima della Germania.
C’è, poi, la Germania che non sembra avere la volontà di legare le proprie sorti a
quelle del resto d’Europa. Quindi, sempre secondo me, è stato violato lo spirito con
cui è stato creato l’euro.
D. – Non c’è, in questa Unione Europea, un’idea
un po’ troppo grande di Europa, che non ha poi riscontro nella percezione dei singoli
popoli europei, ancora legati a una visione nazionale?
R. – Questo oggi
è vero. Ed è per questo che io pongo il dibattito: chiedo cioè di dibattere sulle
condizioni in base alle quali stiamo in Europa e sulle prospettive che l’Europa ci
offre. In passato non era così e allora la domanda che ci si pone è: come mai l’idea
di Europa - l’idea cioè che avevano i padri fondatori, ovvero quella di creare un'unione
politica europea - non si è poi realizzata? Il motivo, per me, è che lo stesso euro
e il Trattato di Maastricht poggiavano su un documento che sosteneva che se avessimo
sottoscritto il Trattato, ci sarebbe stato un incremento dello sviluppo nell’ordine
del quattro per cento: questo, però, non si è mai realizzato. Stiamo navigando all’uno
per cento e navigare all’uno per cento significa che perdiamo posti di lavoro: gli
economisti hanno stimato che per difendere il livello di occupazione bisogna crescere
al tre per cento, che è, in effetti, l’obiettivo minimo che hanno oggi gli Stati Uniti.
Non è possibile allora mandare un messaggio, dicendo al popolo che deve votare, ma
che una parte – oggi siamo già al dieci per cento – rimarrà senza lavoro, tanto più
- ahimè - che questa parte è rappresentata proprio dai giovani. Il discorso è molto
grave. Io capisco che il dibattito italiano è sovrastato di problemi interni, ma i
pericoli non vengono dall’interno, perché - prima o dopo - sistemeremo questi problemi
interni. I pericoli vengono dall’esterno e, quindi, occorre un serio dibattito. (ma)