Mons. Filoni incontra i feriti iracheni al Gemelli: il Papa è vicino ai cristiani
dell'Iraq
Il sostituto per gli Affari generali della Segreteria di Stato, mons. Fernando
Filoni, si è recato ieri al Policlinico Gemelli di Roma per visitare alcuni feriti
nella strage alla Cattedrale siro-cattolica di Baghdad, del 31 ottobre scorso. La
visita ha voluto innanzitutto manifestare la vicinanza del Papa alla comunità cristiana
irachena. Intervistato da Alessandro Gisotti, l’arcivescovo Filoni, a lungo
nunzio a Baghdad, racconta l’emozione di questo incontro e si sofferma sulla difficile
situazione dell’Iraq:
R. - E’ stato
un incontro voluto dal Santo Padre, il quale - proprio attraverso la mia persona -
ha voluto manifestare la sua vicinanza, la sua presenza, il suo affetto e naturalmente
seguire anche personalmente questi casi e ciascuna di queste persone presenti qui
a Roma: si tratta di circa 36-37 persone più gli accompagnatori. Quindi, prima di
tutto, è un atto di affetto, di solidarietà, di stima e di vicinanza del Santo Padre.
L’incontro è stato molto caloroso, affettuoso; la maggior parte di queste persone
l’ho salutata personalmente, ho ascoltato le loro storie, le loro difficoltà ed anche
le loro comprensibilmente forti emozioni. E’ stato un momento d’incontro emozionante,
anche per me. Da parte loro c’era molta gratitudine per il fatto che il Santo Padre
si fosse preso cura di loro, anche nella speranza che poi il Papa stesso possa personalmente
incontrarli.
D. - Il Papa ha rivolto numerosi appelli in favore dei
cristiani perseguitati in Iraq. Secondo lei c’è sufficiente mobilitazione, a livello
internazionale, per proteggere la minoranza cristiana in Iraq?
R. -
E’ sempre difficile dire se sia sufficiente o non sufficiente. Davanti a situazioni
come quelle che abbiamo vissuto anche il 31 ottobre a Baghdad, tutto sembra poco,
perché di fronte al dramma di queste oltre 50 persone trucidate, il dramma che si
portano dietro i parenti delle vittime, lo shock, tutto sembra relativo. La Santa
Sede è altamente impegnata con i governi - ai quali ricorda questo dovere -, è impegnata
con le organizzazioni caritative che si stanno già mobilitando, è impegnata con le
Conferenze episcopali - pensiamo anche alle manifestazioni che sono state fatte in
vari luoghi, compresi Bruxelles e Parigi. Noi riceviamo anche aiuti, lettere di solidarietà
da parte di Chiese ortodosse; abbiamo ricevuto solidarietà in questo senso anche da
parte di autorità diplomatiche e governi. Ci si sta muovendo. Speriamo che questo,
naturalmente, porti anche a dei risultati, in una situazione che in questo momento
in Iraq è molto delicata e difficile.
D. - Domenica prossima ci sarà
una giornata di preghiera per i cristiani iracheni promossa dalla Conferenza episcopale
italiana…
R. - A volte, di fronte a tanta impotenza, sappiamo che la
potenza spirituale, quella di Dio, è un appoggio formidabile. Gli iracheni stessi
hanno chiesto: “In questa nostra difficile situazione vogliamo che i nostri fratelli
cristiani preghino per noi, ci siano vicini con la preghiera e con questo affetto”.
Posso dire anche che, quando io stesso ero a Baghdad e c’era la guerra, mai ho sentito
così vicina, così forte, quasi palpabile, la preghiera che da tutta la Chiesa si elevava
per la pace. La preghiera, quindi, è una realtà efficace. Non dimentichiamo che, per
esempio, il giorno 25, nella Basilica vaticana, il cardinale prefetto della Congregazione
per le Chiese orientali ed il procuratore della Chiesa siro-cattolica qui a Roma,
celebrano una Santa Messa nella quale sono invitati tutti, in particolare, ovviamente,
gli iracheni. Alcune di queste vittime dell’attentato del 31 ottobre mi hanno già
detto che anche loro vogliono essere presenti, portando con sé la foto e i ricordi
della loro famiglia, delle loro vittime.
D. - Eccellenza, lei è stato
a lungo nunzio in Iraq. Qual è, dunque, la sua speranza per il futuro dei cristiani
iracheni, una comunità che sicuramente porta nel cuore?
R. - Quando
ci furono le prime elezioni, io parlai allora di un seme che era stato gettato. E’
un seme di libertà ed anche di convivenza, che trova difficoltà a crescere. Dunque,
la mia speranza - e credo non solo la mia - è che l’Iraq possa trovare la sua vera
strada verso la convivenza, il rispetto reciproco. E’ l’attesa di tanti iracheni cristiani
che, anche se oggi hanno dovuto abbandonare la loro casa, il loro Paese, hanno comunque
una speranza. Se questo si attuerà e avverrà, sono convinto che tanti cristiani non
mancheranno di pensare che il ritorno al proprio Paese, alle loro origini, vicini
ai loro cari e alla loro terra, potrà essere non solo una speranza ma una realtà.
(vv)