Plenaria della Cultura. Mons. Ravasi: la Chiesa sia sempre più capace di parlare al
mondo di oggi
La plenaria del Pontificio Consiglio della Cultura è stata aperta ieri pomeriggio
con una seduta pubblica in Campidoglio, con la partecipazione del sindaco di Roma
Gianni Alemanno. I lavori si svolgono da oggi fino a sabato prossimo in Vaticano sul
tema "Cultura della comunicazione e nuovi linguaggi". Luca Collodi ha chiesto
a mons. Gianfranco Ravasi, presidente del dicastero per la Cultura e prossimo
cardinale, perché la plenaria per la sua apertura abbia scelto di uscire dal Vaticano:
R. - E’ stata
quasi una scelta obbligatoria, perché siamo in presenza di un tema che di sua natura
suppone la “polis”, cioè la città; suppone il gioco delle strade che si incrociano;
delle persone che comunicano tra di loro, che urlano e che qualche volta - invece
- sussurrano soltanto. Per questo motivo abbiamo scelto il Campidoglio che è una sorta
di simbolo e dove la comunicazione dovrebbe diramarsi in tutta la città.
D.
- La Chiesa fa della Parola la sua testimonianza, però fatica a parlare il linguaggio
dei tempi moderni. Perché?
R. - Esiste un problema quasi preliminare:
da un lato, noi dobbiamo riconoscere che la comunicazione e il linguaggio sono delle
espressioni fondamentali dell’essere umano e della stessa religione. Non dimentichiamo
che la Bibbia comincia - nell’Antico e nel Nuovo Testamento - con la frase: “Dio disse”
e “In principio c’era la Parola”. Quindi come tale, la parola celebra i suoi trionfi,
nella cultura, nella religione, nella comunicazione, come avviene ora tra di noi.
Dall’altra parte, però, si è riconosciuto che ormai la comunicazione e il linguaggio
sono malati: hanno tante diverse malattie degenerative e al capezzale di questo malato
ci sono tanti specialisti. Tra questi ci deve essere, indubbiamente, anche la comunità
ecclesiale, anche perché tante volte la comunità ecclesiale, forse, questo linguaggio
non sa più usarlo.
D. - Mons. Ravasi è la Chiesa che non sa più usare
il linguaggio o sono i contenuti ecclesiali che non interessano più l’opinione pubblica?
R.
- Noi sappiamo il famoso detto, che viene sempre citato, “il mezzo è il messaggio”:
contenuto e mezzo di comunicazione si intrecciano ininterrottamente tra di loro e
costituiscono quasi come una sorta di realtà inestricabile. Per questo motivo il contenuto
è primario. Noi abbiamo un messaggio da comunicare, che è tante volte alternativo
rispetto a quello della società contemporanea, ma che riteniamo fondamentale per i
valori che custodisce, per la ricchezza che contiene. Dall’altra parte, però, c’è
il mezzo e il mezzo purtroppo molte volte è stato perso: si è usato un linguaggio
e un modo espressivo, da parte della società contemporanea, che non è stato raccolto
dalla Chiesa e che ha continuato con un suo linguaggio. Ecco allora la necessità di
entrare non soltanto con in contenuto, ma anche con il mezzo, con la comunicazione.
D.
- C’è la necessità anche di una formazione dei pastori della Chiesa ai nuovi linguaggi…
R.
- E’ questa una delle necessità, forse, fondamentali. E non soltanto per evitare quella
critica ironica che faceva Voltaire ai predicatori, dicendo che “l’eloquenza è come
la spada di Carlo Magno: lunga e piatta, perché i predicatori quello che non sanno
darti in profondità te lo danno in lunghezza!”. La necessità di trovare un linguaggio
certamente più capace di entrare in sintonia con la cultura e con l’uomo di oggi è
indispensabile. Non dimenticando, però, che esiste un linguaggio fondamentale di riferimento
e dal quale non si può prescindere. Ci sono delle parole che devono essere conservate!
D.
- L'apertura della plenaria è avvenuta fuori dal Vaticano: ci dobbiamo aspettare nuove
conclusioni dal lavoro dell’assemblea?
R. - Sicuramente l’originalità
dell'apertura fuori dal Vaticano, come sempre si è fatto, è già significativa in sé.
L'altra novità è che la plenaria coinvolgerà persone diversissime: ci saranno registi
cinematografici, ci saranno artisti ed architetti che interverranno, studiosi di linguaggio
e specialisti di Internet …. Questo è già un modo per parlare ad un areopago molto
più esteso, ad una piazza molto più espansa. Io penso che, d’altra parte - e qui ritorniamo
alle parole di Cristo - non dobbiamo annunciare soltanto nell’interno della penombra
aureolata - forse - di incensi, della comunità ecclesiale, delle chiese, ma dobbiamo
parlare - come diceva Gesù - anche dalle terrazze e dai tetti: e noi siamo saliti,
appunto, sulla terrazza del Campidoglio o - se si vuole - di tutta la società contemporanea.
(mg)