Iraq: Talabani riconfermato presidente. Al Maliki già al lavoro per il nuovo esecutivo
Dopo 8 mesi di stallo, i principali partiti politici iracheni hanno raggiunto ieri
un accordo sulla spartizione delle principali cariche. Alla presidenza è stato riconfermato
Jalal Talabani, che ha immediatamente affidato al premier uscente Nuri al-Maliki l'incarico
di formare un nuovo governo entro 30 giorni. Da segnalare la clamorosa protesta da
parte di una sessantina di deputati di Iraqyia, il blocco che fa capo all'ex premier
Iyad Allawi, che al momento del voto sulla sua nomina sono usciti dall'aula. Ma si
può dire che effettivamente l’Iraq abbia messo la parola fine a questa impasse? Salvatore
Sabatino lo ha chiesto ad Alessandro Colombo, docente di relazioni internazionali
presso l’Università di Milano:
R. – Ha messo
la parola fine al primo pezzo dell’impasse che era quello, per l’appunto, del riallineamento
del quadro politico alla luce dei risultati elettorali di otto mesi fa. Restano aperte,
invece, tutte le altre questioni: la riorganizzazione amministrativa del Paese e soprattutto
il tema centrale della distribuzione delle rendite petrolifere, soprattutto nelle
zone contese, come il Kurdistan e certi pezzi nel sud dell’Iraq.
D.
– In questi otto mesi, l’Iraq ha vissuto momenti non certo semplici con la questione
sicurezza sempre in primo piano; la stabilità politica avrà comunque conseguenze positive
anche su questo fronte?
R. – E’ chiaro che l’equilibrio è molto precario,
per una ragione in questo momento che ha un impatto diretto sulla sicurezza ed è sostanzialmente
il modo in cui andranno riorganizzate le forze armate, le forze di polizia, il numero
anche della cooptazione di tutte quelle milizie che sono state organizzate nella fase
di gestione del generale Petraeus e che a questo punto restano in una sorta di limbo.
D.
– Tra le emergenze che il nuovo esecutivo dovrà affrontare, c’è quella degli attacchi
contro la comunità cristiana che continua ad essere una vera e propria piaga...
R.
– Sì, questo è, credo, uno delle conseguenze, per certi versi più prevedibili, inquietanti,
della guerra di sei – sette anni fa; il conflitto del 2003 ha sostanzialmente spaccato
tutte le condizioni della convivenza tra le diverse comunità in Iraq e in modo particolare
ha spaccato le condizioni della lunga convivenza che i cristiani iracheni avevano
potuto sperimentare con tutte le altre popolazioni locali. Questo è un capitolo molto
complesso anche perché tutto lascia pensare che nella strategia di Al Qaeda o comunque
dei gruppi che colpiscono le popolazioni cristiane, ci sia una sorta di razionalità
strategica: colpire le popolazioni cristiane significa mettere i Paesi occidentali
- e gli Stati Uniti prima di tutto - in una condizione di grande imbarazzo e soprattutto
nella condizione di non potersene andare del tutto.
D. – Tra l’altro
il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha condannato gli ultimi attacchi, sottolineando
l’importante ruolo che la comunità cristiana svolge nel difficile cammino verso la
democratizzazione. Una presa di posizione forte quella del Palazzo di Vetro...
R.
– Sì una presa di posizione forte, anche se con qualche elemento di ritualismo, perché
se è naturale che la comunità cristiana svolga un ruolo importante, è altrettanto
importante ricordare che questo ruolo l’ha svolto anche in passato e che la convivenza
è stata rotta dalla guerra. Prima del conflitto il vice Presidente dell’Iraq era cristiano.
Con tutto il male, il malissimo che si può dire di quel regime politico, non c’era
un problema di convivenza neanche lontanamente paragonabile a quello che c’è oggi.
(ma)