Sugli schermi in Italia il film "Uomini di Dio" sulla vicenda dei 7 Trappisti uccisi
in Algeria
E’ arrivato nelle sale italiane “Uomini di Dio” il film del regista Xavier Beauvois
che racconta la storia dei 7 frati Trappisti, rapiti e assassinati a Tibhirine, in
Algeria, sulle montagne del Maghreb, nel marzo del 1996. Una drammatica vicenda ancora
al centro di un’inchiesta giudiziaria, vista attraverso gli occhi di chi ha scelto,
nonostante le difficoltà e i pericoli di restare in una terra difficile, seguendo
Cristo fino al sacrificio estremo. Tante le tematiche affrontate in questa pellicola:
dalla spiritualità monastica, all’impegno verso il prossimo, passando per la difficile
costruzione del dialogo e della comunione tra cristiani e musulmani. Cecilia Seppia
ne ha parlato con padreTommaso Georgeon, Abate del Monastero di Frattocchie
vicino Roma:
R. – Questo
film mostra benissimo qual è stata la vita dei fratelli e anche tramite il ritmo del
film, la scelta dei Salmi ci mostra davvero in modo magnifico la doppia fedeltà dei
fratelli, a Cristo e al prossimo.
D. – Ecco, qui c’è proprio il messaggio
forte di una comunità monastica che si pone domande di coscienza e che proprio per
fedeltà alla vocazione decide di rischiare la propria vita …
R. – Questa
comunità ad un certo momento ha avuto come il dono dello Spirito Santo; ma non è che
hanno scelto di morire: hanno soprattutto scelto di amare e amare significava amare
il prossimo e anche amare Cristo fino alla morte, come firmiamo nella nostra professione
solenne. Nessuno, quando firma questo documento, pensa che la sua vita potrebbe anche
essere data tramite il martirio. I fratelli, ad un certo punto, hanno avuto la certezza
che si trattasse della chiamata di Cristo. Credo che il messaggio più importante di
questo film sia saper scegliere di amare.
D. – Nel film viene sottolineata
più volte la volontà di un incontro umano e spirituale con i musulmani. C’è anche
in questo caso un messaggio attuale – che poi è stato ribadito più volte anche al
Sinodo per il Medio Oriente – la volontà di costruire un ponte, un futuro comune tra
credenti di diverse religioni?
R. – Ciò che Giovanni Paolo II ha sviluppato,
parlando della spiritualità di comunione, penso che i fratelli abbiano veramente provato
a viverlo. La figura più importante del monastero di Tibhirine era il medico, fra
Luca, che ha vissuto curando tutte le persone che venivano a trovarlo: è stata una
vita data a Cristo tramite la cura dell’altro, in cui si riconosce Cristo.
D.
– Nel film il regista non si concentra tanto sull’indagine giudiziaria che è alla
base di questa drammatica vicenda, ma sulla vita quotidiana monastica dei protagonisti:
il lavoro, l’impegno per il prossimo. Quella dei frati Trappisti è una spiritualità
che attrae, anche oggi?
R. – Oggi la difficoltà della nostra vita –
che ovviamente è una vita bellissima, tutta dedicata a Dio – è una questione di fede,
di convinzione e di abbandono. C’è crisi anche nella vita monastica, perché c’è proprio
la “crisi dell’impegno”: è una vita che richiede un impegno fortissimo, e questo nel
film si vede benissimo! I fratelli hanno un legame talmente forte, non soltanto tra
di loro, ma pure con la terra, che non vogliono lasciare. Loro avevano la scelta,
eppure non hanno scelto di andare via.