In Giappone gli hospice cattolici sono le uniche strutture per i malati terminali
Curare il corpo e lo spirito: è questo il delicato, ma fondamentale compito cui fanno
fronte gli hospice cattolici presenti in Giappone, impegnati nella pastorale per i
malati terminali. “Cerchiamo di aiutare il paziente a mantenere la propria normalità
– è la testimonianza rilasciata ad AsiaNews da padre Nobuyoshi Matsumoto, alla guida
del Garashi Hospital – li accompagniamo a casa, al cinema, a mangiare fuori e persino
nelle case del tè. Li spingiamo a continuare a curare i loro animali domestici e a
compiere le attività che fanno parte del quotidiano”. Eppure posti come il Garashi,
nel Paese del Sol Levante, sono pochissimi: solo 195 unità palliative per un totale
di 3839 posti letto, in un Giappone dove i due terzi dei decessi sono imputabili al
cancro. Lo stesso Garashi, che ha appena celebrato i cinque anni di vita, è stato
il primo di due nell’arcidiocesi di Osaka. Il motivo per cui sono così pochi? “Non
certo perché siano inutili, ma perché è ancora forte una certa cultura della morte
che va sradicata – prosegue padre Matsumoto – qui accogliamo con calore e con un abbraccio
il malato terminale. In un certo senso l’hospice è un albergo con dottori, infermiere,
farmacisti, nutrizionisti e fisioterapisti: un posto dove trascorrere gli ultimi giorni
con la migliore situazione sanitaria possibile e nella pace della propria famiglia”.
E grande attenzione è riservata anche a chi subisce una grave perdita e ha bisogno
di elaborare il lutto: una volta al mese, infatti, si svolge lo Yurinokai, la riunione
per i familiari che restano. (R.B.)