2010-10-14 15:43:09

Il Rabbino Rosen, invitato speciale al Sinodo, all'Assemblea dei vescovi: Dobbiamo conoscerci


Pubblichiamo il testo dell'intervento del rabbino David Rosen, Consigliere del Gran Rabbinato di Israele e Direttore del «Department for Interreligious Affairs of the American Jewish Committee and Heilbrunn Institute for International Interreligious Understanding», durante la quinta congregazione generale del Sinodo dei vescovi per il Medio Oriente svoltasi nel pomeriggio di mercoledì 13 ottobre:

Oggi il rapporto tra la Chiesa cattolica e il popolo ebraico rappresenta una felice trasformazione per i nostri tempi — si può dire senza paralleli storici.
Nelle sue parole nella grande sinagoga di Roma lo scorso mese di gennaio, Sua Santità Papa Benedetto XVI ha ricordato l'insegnamento del concilio ecumenico Vaticano II come «un punto fermo a cui riferirsi costantemente nell'atteggiamento e nei rapporti con il popolo ebraico, segnando una nuova e significativa tappa».
Naturalmente questa straordinaria trasformazione nel modo in cui il popolo ebraico viene considerato e presentato ha dovuto e deve ancora confrontarsi con l'influenza di secoli, se non di millenni, di «insegnamento del disprezzo» nei confronti degli ebrei e dell'ebraismo, che ovviamente non può essere eliminato di punto in bianco e neppure dopo quarantacinque anni. Inevitabilmente l'impatto di questa trasformazione nei rapporti cattolico-ebraici varia considerevolmente da un contesto all'altro, a seconda dell'influenza di fattori sociologici, educativi e perfino politici. Si può dire che l'internazionalizzazione più drastica ha avuto luogo negli Stati Uniti d'America, dove ebrei e cristiani vivono in una società aperta fianco a fianco come minoranze vibranti, sicure di sé e civilmente impegnate. Di conseguenza qui i rapporti hanno raggiunto un livello unico, comprendendo cooperazione e scambi tra le comunità e le loro istituzioni educative; oggi gli Stati Uniti vantano letteralmente dozzine di istituzioni accademiche di studi e relazioni cattolico-ebraiche, mentre nel resto del mondo ne esistono forse tre. In effetti tra le comunità ebraiche degli Stati Uniti è diffusa la percezione della Chiesa cattolica come di una amica autentica con profondi valori e interessi comuni. È mio privilegio essere a capo della rappresentanza internazionale interreligiosa dell'American Jewish Committee (Comitato ebreo americano), che è stato e continua a essere la principale organizzazione ebraica per quanto riguarda questa importante e storica trasformazione.
Tuttavia esistono molti Paesi in cui questi fattori sociali e demografici non esistono. Nella maggior parte dei Paesi in cui il cattolicesimo rappresenta la forza sociale dominante, le comunità ebraiche sono piccole, se non del tutto assenti, e i rapporti tra la Chiesa e l'ebraismo spesso sono trascurabili. Confesso di essere rimasto sorpreso di scoprire nel clero cattolico e talvolta anche nella gerarchia di alcuni Paesi non solo ignoranza nei confronti dell'ebraismo contemporaneo, ma spesso perfino della Nostra aetate, il documento del concilio che ne è scaturito, e di conseguenza degli importanti insegnamenti del magistero riguardo agli ebrei e all'ebraismo.
Mentre, come abbiamo detto, l'esperienza ebraica negli Stati Uniti ha fatto molto per mitigare le impressioni negative del tragico passato, nel mondo ebraico esiste ancora una diffusa ignoranza del cristianesimo — soprattutto quando i contatti con i cristiani di oggi sono sporadici o inesistenti.
Nell'unico sistema politico mondiale in cui gli ebrei sono la maggioranza, lo Stato di Israele, questo problema è ulteriormente aggravato dal contesto politico e sociologico. In Medio Oriente, come nella maggior parte del mondo, le comunità tendono a vivere nei propri ambienti linguistici, culturali e confessionali, e Israele non fa eccezione. Inoltre gli arabi cristiani in Israele sono una minoranza dentro una minoranza — circa 120.000 su una popolazione araba di quasi un milione e mezzo che per la maggior parte è musulmana e che rappresenta forse il venti per cento di tutta la popolazione di Israele (intorno ai sette milioni e mezzo). È vero che gli israeliani arabi cristiani rappresentano una minoranza religiosa particolarmente affermata sotto molti aspetti. I loro standard socio-economici ed educativi sono ben al di sopra della media — le loro scuole registrano i voti migliori agli esami di maturità annuali — molti di loro sono politici ad alto livello e sono stati in grado di attingere ai molti benefici del sistema democratico di cui sono parte integrante. Tuttavia la vita quotidiana della stragrande maggioranza di arabi ed ebrei si svolge in seno ai loro rispettivi contesti. Di conseguenza la maggior parte degli ebrei israeliani non incontra i cristiani contemporanei; e perfino quando si recano all'estero tendono a considerarli non-ebrei come tali, non cristiani moderni. Di conseguenza fino a poco tempo fa la maggior parte della società israeliana non ha avuto alcun sentore dei profondi cambiamenti nei rapporti tra cattolici ed ebrei. Tuttavia questa situazione ha iniziato a cambiare significativamente nell'ultimo decennio per diversi motivi, di cui due particolarmente importanti.
Il primo è rappresentato dall'impatto della visita del compianto Papa Giovanni Paolo II nell'anno 2000, a seguito dello stabilimento dei rapporti diplomatici bilaterali tra Israele e la Santa Sede di sei anni prima. Mentre quest'ultimo fatto era già stato percepito in Israele, è stato il potere delle immagini visive, il cui significato Papa Giovanni Paolo II comprendeva così bene, che ha rivelato chiaramente alla maggior parte della società israeliana la trasformazione che si era operata negli atteggiamenti e negli insegnamenti cristiani riguardo al popolo ebraico con il quale lo stesso Papa ha mantenuto e ha continuato a promuovere mutua amicizia e rispetto. Per Israele vedere il Papa al Muro Occidentale, frammento del Secondo Tempio, stare in piedi in segno di rispetto per la tradizione ebraica e porvi il testo che aveva composto per la giornata del perdono che aveva avuto luogo due settimane prima qui, a San Pietro, testo in cui chiedeva il perdono divino per i peccati commessi contro gli ebrei nel corso dei secoli, è stato straordinario e commovente nel suo effetto. Gli ebrei di Israele hanno ancora molta strada da fare per superare un passato negativo, ma non c'è dubbio che da quella storica visita gli atteggiamenti sono cambiati. Essa inoltre ha portato all'importante nuovo cammino verso il dialogo, la comprensione e la collaborazione grazie alla commissione bilaterale del Gran Rabbinato di Israele e della commissione della Santa Sede per i rapporti religiosi con l'ebraismo, istituita per iniziativa di Giovanni Paolo II e ampiamente lodata da Papa Benedetto XVI nel corso del suo pellegrinaggio in Terra Santa lo scorso anno, come pure nelle sue parole alla sinagoga di Roma all'inizio di quest'anno.
Un altro fattore importante è l'influsso di altri cristiani che hanno raddoppiato l'assetto demografico del cristianesimo in Israele.
Mi riferisco innanzitutto ai circa cinquantamila cristiani praticanti che facevano parte del flusso migratorio dall'ex Unione Sovietica verso Israele negli ultimi due decenni. In quanto strettamente legati, allo stesso tempo, con la società ebraica a motivo di vincoli familiari e culturali, si può dire che essi rappresentino la prima minoranza cristiana che si considera allo stesso tempo parte di una maggioranza ebraica da quando si è formata la comunità cristiana degli albori.
Questi cristiani, come le comunità arabo cristiane, sono cittadini israeliani che godono del pieno diritto di cittadinanza e di uguaglianza di fronte alla legge. Tuttavia esiste un terzo importante popolo cristiano in Israele, la cui permanenza legale è talvolta problematica.
Si tratta delle molte migliaia di cristiani praticanti su circa un quarto di milione di lavoratori immigrati — dalle Filippine, dall'Europa dell'est, dall'America latina e dall'Africa sub-sahariana. La maggior parte di loro è ospite del Paese legalmente e provvisoriamente. Tuttavia circa la metà di loro è entrata o risiede illegalmente, e la loro posizione è precaria dal punto di vista legale.
Tuttavia la sostanziale presenza cristiana in mezzo a questa popolazione alimenta una vita religiosa piena di vitalità e rappresenta una significativa terza dimensione della realtà cristiana nell'Israele di oggi. Questi fattori hanno contribuito, fra gli altri, a una crescente familiarità in Israele con il cristianesimo odierno. Inoltre, mentre esistono circa duecento organizzazioni israeliane che promuovono la comprensione e la collaborazione arabo-ebraiche in generale, esistono anche letteralmente dozzine di organismi che promuovono incontri interreligiosi, dialogo e studi, e la presenza cristiana al loro interno è esorbitante e assai significativa. Ciò naturalmente è dovuto in sostanza alla presenza di istituzioni cristiane e ai loro presbiteri, alunni, rappresentanti internazionali delle chiese e così via, che contribuiscono, in modo del tutto sproporzionato rispetto al loro numero, a questi sforzi, soprattutto nel campo dell'istruzione. Inoltre il fatto che nello Stato di Israele i cristiani, come i musulmani, rappresentino una minoranza che vuol essere accettata e compresa dalla maggioranza degli ebrei, è servito da stimolo per l'impegno interreligioso (contrariamente ad altri luoghi, dove spesso accade l'inverso).
I cristiani in Israele si trovano naturalmente in una situazione molto diversa da quella delle loro comunità sorelle in Terra Santa, che fanno parte di una società palestinese che lotta per la propria indipendenza e che vengono inevitabilmente coinvolte tutti i giorni nel conflitto israelo-palestinese. In effetti l'ubicazione di alcune di queste comunità ai confini tra Israele e la giurisdizione palestinese fa sì che queste spesso debbano sopportare l'affronto delle misure di sicurezza che lo Stato ebraico si sente in obbligo di mantenere al fine di proteggere i propri cittadini dalla continua violenza dall'interno dei territori palestinesi. È giusto e opportuno che questi cristiani palestinesi esprimano il loro disagio e le loro speranze riguardo alla situazione. Tuttavia è rilevante e deplorevole che tali espressioni non siano sempre conformi con la lettera e lo spirito del magistero riguardo ai rapporti con gli ebrei e l'ebraismo. Ciò sembra riflettersi in un contesto geografico più ampio, dove l'impatto del conflitto arabo-israeliano ha rappresentato troppo spesso un disagio per molti cristiani nei confronti della riscoperta da parte della Chiesa delle proprie radici ebraiche e talvolta una preferenza per il pregiudizio storico.
Tuttavia la difficile situazione dei palestinesi in generale, e dei cristiani palestinesi in particolare, dovrebbe preoccupare profondamente gli ebrei sia in Israele che nella diaspora. Per incominciare, proprio l'ebraismo ha mostrato al mondo che ogni persona umana è creata a immagine divina; e che di conseguenza, come insegnano i saggi del Talmud, ogni atto irrispettoso nei confronti di un'altra persona è un atto irrispettoso nei confronti del Creatore stesso. Noi abbiamo una responsabilità particolare nei confronti del prossimo che soffre. E tale responsabilità è ancora più grande quando la sofferenza scaturisce da un conflitto cui partecipiamo e in cui, paradossalmente, abbiamo precisamente il dovere morale e religioso di proteggere e difendere noi stessi.
Per me personalmente, in quanto israeliano di Gerusalemme, la penosa situazione in Terra Santa e la sofferenza di tante persone da entrambe le parti dello spartiacque politico è causa di grande dolore, anche se mi rendo perfettamente conto del fatto che essa viene usata e abusata per fomentare tensioni che vanno ben oltre il contesto geografico del conflitto stesso. Ringrazio Dio per il gran numero di organizzazioni che nella nostra società operano per alleviare quanta più sofferenza possibile in questo difficilissimo contesto. Sono orgoglioso di essere il fondatore di una di queste organizzazioni, Rabbis for Human Rights (Rabbini per i diritti umani), il cui direttore e i cui membri, proprio in veste di leali cittadini israeliani, continuano a lottare per difendere e promuovere la dignità umana di tutte le persone e in particolare delle più vulnerabili. Naturalmente, sono consapevole delle stragi sulle strade delle nostre città, nel passato recente, e delle persistenti minacce che, nel presente, vengono da coloro che sono apertamente impegnati nella distruzione e nello sterminio di Israele. Tuttavia, dobbiamo sforzarci di fare tutto il possibile per alleviare la durezza delle condizioni, specialmente per coloro che appartengono alle comunità cristiane di Gerusalemme e dintorni. Di fatto, negli ultimi mesi le condizioni sono notevolmente migliorate, per esempio per quel che riguarda la libera circolazione del clero; inoltre, recentemente, sembrano esserci segnali di una crescente comprensione dei bisogni delle comunità cristiane locali da parte delle autorità, malgrado le sfide poste dalla sicurezza. Noi siamo a favore di tutto ciò, nella convinzione che sia assolutamente nell'interesse di tutti. Dunque, la responsabilità ebraica di garantire la fioritura di comunità cristiane in mezzo a noi, in considerazione del fatto che la Terra Santa è la terra in cui nacque il cristianesimo e dove si trovano i luoghi sacri, viene rafforzata dalla nostra rinnovata e crescente fraternità. Tuttavia, anche andando oltre il nostro particolare rapporto, i cristiani presenti come minoranza in ambiente ebraico o musulmano svolgono un ruolo molto speciale nel contesto delle nostre società. La situazione delle minoranze si riflette sempre profondamente sulle condizioni sociali e morali di una società nel suo insieme. Il benessere delle comunità cristiane in Medio Oriente non è altro che una specie di barometro delle condizioni morali dei nostri Paesi. Il grado dei diritti civili e religiosi o delle libertà di cui godono i cristiani testimonia lo stato di salute o di malattia delle rispettive società mediorientali. Inoltre, come ho già detto, i cristiani svolgono un ruolo assai importante nella promozione del dialogo e della collaborazione interreligiosi nel Paese. Dunque, vorrei suggerire che proprio questa è la funzione dei cristiani, ovvero contribuire al superamento del pregiudizio e del malinteso che affliggono la Terra Santa e che, naturalmente, sono sostenuti nel resto della regione. Sebbene non sia giusto aspettarsi che le piccole comunità cristiane locali siano in grado di sopportare da sole tale responsabilità, forse possiamo sperare che, se sostenute in questo dalla loro Chiesa universale e dall'autorità centrale, possano fungere da salutari operatori di pace nella città il cui nome significa pace e che tale significato ha mantenuto per le nostre comunità. La gerarchia cattolica locale ha già dato un segno di ciò istituendo in anni recenti il Consiglio delle istituzioni religiose in Terra Santa, che riunisce il Gran Rabbinato di Israele, i tribunali della Sharia e il ministero degli Affari Religiosi dell'Autorità Palestinese, nonché i leader cristiani ufficiali in Terra Santa. Tale Consiglio non solo facilita la comunicazione fra le diverse autorità religiose, ma è anche impegnato nella lotta ai malintesi, al fanatismo e all'istigazione, cercando di essere un punto di forza per la riconciliazione e la pace, in modo che due nazioni e tre religioni possano convivere nella stessa terra con dignità, libertà e tranquillità assolute.
L'Instrumentum laboris di questo Sinodo speciale per il Medio Oriente cita Papa Benedetto XVI nella sua conferenza stampa pubblicata su «L'Osservatore Romano», mentre si recava in Terra Santa. Dice: «è importante, da una parte avere i dialoghi bilaterali — con gli ebrei e con l'Islam — e poi anche il dialogo trilaterale» (96). Proprio quest'anno, per la prima volta il Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso e la Pontificia Commissione per i Rapporti religiosi con l'Ebraismo hanno ospitato, insieme all'International Jewish Committee for Interreligious Consultations (Ijcic) e la fondazione «Le tre culture», a Siviglia, in Spagna, il nostro primo dialogo trilaterale. È stata per me una gioia particolare, poiché la proposta di ciò venne avanzata quando ero presidente del Ijcic e spero vivamente che sia solo l'inizio di un dialogo trilaterale più esteso, che possa vincere il sospetto, il pregiudizio e i malintesi, in modo che possiamo mettere in luce i valori condivisi dalla famiglia di Abramo per il bene di tutta l'umanità. Mi sembra che la suddetta commissione bilaterale con il Rabbinato di Israele e il consiglio delle istituzioni religiose in Terra Santa costituisca in questo senso un'opportunità e una sfida ancor più grandi.
L'Instrumentum laboris ci permette di comprendere meglio la natura dei rapporti dei cristiani sia con gli ebrei sia con i musulmani. Cita infatti le parole di Papa Benedetto XVI a Colonia, nell'agosto del 2005, quando descrisse le relazioni con l'islam: «... una necessità vitale, da cui dipende in gran parte il nostro futuro» (95). In Medio Oriente ciò si può toccare con mano. A seconda che il concetto di dar el Islam sia inteso soltanto in un contesto geografico/culturale o piuttosto teologico, la domanda fondamentale per il futuro delle nostre comunità è se i fratelli musulmani saranno capaci di considerare la presenza dei cristiani e degli ebrei come parte integrante e pienamente legittimata della regione nel suo insieme. La necessità di affrontare questo problema è veramente «una necessità vitale... da cui... dipende il nostro futuro».
Ciò si ricollega precisamente alla questione che è alla radice del conflitto arabo-israeliano. Coloro che rivendicano l'«occupazione» come «causa originaria» del conflitto non sono sinceri, nel migliore dei casi. Questo conflitto è in atto da decenni, da molto prima della guerra dei Sei Giorni del 1967, il cui esito portò Gaza e Cisgiordania sotto il controllo israeliano. L'«occupazione» è infatti una conseguenza del conflitto, la cui «causa originaria» è in realtà se il mondo arabo possa o meno tollerare un sistema di governo sovrano non arabo al suo interno. Tuttavia l'Instrumentum laboris nel commento alla Dei Verbum descrive il dialogo della Chiesa «con i suoi fratelli maggiori» non solo necessario, ma «essenziale» (87). Proprio durante la visita alla grande sinagoga di questa città, quest'anno Papa Benedetto XVI ha citato il Catechismo della Chiesa cattolica (839): «È scrutando il suo stesso mistero che la Chiesa, Popolo di Dio della Nuova Alleanza, scopre il proprio profondo legame con gli Ebrei, scelti dal Signore primi fra tutti ad accogliere la sua parola»; aggiunge in seguito: «la fede ebraica è già risposta alla rivelazione di Dio». Queste parole fanno eco a quelle del suo predecessore, Giovanni Paolo II, che nella sua storica visita allo stesso luogo di adorazione degli ebrei, in questa città nel 1986, dichiarò che la «religione ebraica non è estrinseca, ma in certo qual modo è intrinseca alla nostra religione. Con l'Ebraismo dunque abbiamo un rapporto che non abbiamo con nessun'altra religione». Inoltre, nell'esortazione apostolica del 28 giugno 2003, il Pontefice descrisse «il dialogo con l'ebraismo» come «di fondamentale importanza per l'autocoscienza cristiana», in linea con l'appello del Sinodo a «riconoscere le comuni radici che intercorrono tra il cristianesimo e il popolo ebraico, chiamato da Dio a un'alleanza che rimane irrevocabile». Come ho detto, le realtà politiche in Medio Oriente non sempre facilitano il riconoscere, da parte dei cristiani, e ancor meno a far proprie, queste esortazioni. Tuttavia, prego che il miracolo di ciò, a cui Giovanni Paolo II si è riferito come «la fioritura di una nuova primavera nei reciproci rapporti», diventi sempre più evidente in Medio Oriente e nel mondo intero. A questo scopo, dedichiamoci sempre più devotamente, attraverso la preghiera e le opere, alla pace e alla dignità per tutti. Preghiamo con le parole di Papa Giovanni Paolo II presso il Muro Occidentale di Gerusalemme, con cui il Pontefice Benedetto XVI ha concluso la presentazione nella grande sinagoga di Roma: «Manda la tua pace in Terra Santa, nel Medio Oriente, in tutta la famiglia umana; muovi i cuori di quanti invocano il tuo nome, perché percorrano umilmente il cammino della giustizia e della compassione».
Permettetemi, come colui che viene a voi dalla città santa e prediletta da noi tutti, di concludere con le parole del salmista: «Ti benedica il Signore da Sion. Possa tu vedere il bene di Gerusalemme tutti i giorni della tua vita!» (Salmo 128, 5).







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