Il Rabbino Rosen, invitato speciale al Sinodo, all'Assemblea dei vescovi: Dobbiamo
conoscerci
Pubblichiamo il testo dell'intervento del rabbino David Rosen, Consigliere del Gran
Rabbinato di Israele e Direttore del «Department for Interreligious Affairs of the
American Jewish Committee and Heilbrunn Institute for International Interreligious
Understanding», durante la quinta congregazione generale del Sinodo dei vescovi per
il Medio Oriente svoltasi nel pomeriggio di mercoledì 13 ottobre:
Oggi il
rapporto tra la Chiesa cattolica e il popolo ebraico rappresenta una felice trasformazione
per i nostri tempi — si può dire senza paralleli storici. Nelle sue parole nella
grande sinagoga di Roma lo scorso mese di gennaio, Sua Santità Papa Benedetto XVI
ha ricordato l'insegnamento del concilio ecumenico Vaticano II come «un punto fermo
a cui riferirsi costantemente nell'atteggiamento e nei rapporti con il popolo ebraico,
segnando una nuova e significativa tappa». Naturalmente questa straordinaria trasformazione
nel modo in cui il popolo ebraico viene considerato e presentato ha dovuto e deve
ancora confrontarsi con l'influenza di secoli, se non di millenni, di «insegnamento
del disprezzo» nei confronti degli ebrei e dell'ebraismo, che ovviamente non può essere
eliminato di punto in bianco e neppure dopo quarantacinque anni. Inevitabilmente l'impatto
di questa trasformazione nei rapporti cattolico-ebraici varia considerevolmente da
un contesto all'altro, a seconda dell'influenza di fattori sociologici, educativi
e perfino politici. Si può dire che l'internazionalizzazione più drastica ha avuto
luogo negli Stati Uniti d'America, dove ebrei e cristiani vivono in una società aperta
fianco a fianco come minoranze vibranti, sicure di sé e civilmente impegnate. Di conseguenza
qui i rapporti hanno raggiunto un livello unico, comprendendo cooperazione e scambi
tra le comunità e le loro istituzioni educative; oggi gli Stati Uniti vantano letteralmente
dozzine di istituzioni accademiche di studi e relazioni cattolico-ebraiche, mentre
nel resto del mondo ne esistono forse tre. In effetti tra le comunità ebraiche degli
Stati Uniti è diffusa la percezione della Chiesa cattolica come di una amica autentica
con profondi valori e interessi comuni. È mio privilegio essere a capo della rappresentanza
internazionale interreligiosa dell'American Jewish Committee (Comitato ebreo americano),
che è stato e continua a essere la principale organizzazione ebraica per quanto riguarda
questa importante e storica trasformazione. Tuttavia esistono molti Paesi in cui
questi fattori sociali e demografici non esistono. Nella maggior parte dei Paesi in
cui il cattolicesimo rappresenta la forza sociale dominante, le comunità ebraiche
sono piccole, se non del tutto assenti, e i rapporti tra la Chiesa e l'ebraismo spesso
sono trascurabili. Confesso di essere rimasto sorpreso di scoprire nel clero cattolico
e talvolta anche nella gerarchia di alcuni Paesi non solo ignoranza nei confronti
dell'ebraismo contemporaneo, ma spesso perfino della Nostra aetate, il documento del
concilio che ne è scaturito, e di conseguenza degli importanti insegnamenti del magistero
riguardo agli ebrei e all'ebraismo. Mentre, come abbiamo detto, l'esperienza ebraica
negli Stati Uniti ha fatto molto per mitigare le impressioni negative del tragico
passato, nel mondo ebraico esiste ancora una diffusa ignoranza del cristianesimo —
soprattutto quando i contatti con i cristiani di oggi sono sporadici o inesistenti. Nell'unico
sistema politico mondiale in cui gli ebrei sono la maggioranza, lo Stato di Israele,
questo problema è ulteriormente aggravato dal contesto politico e sociologico. In
Medio Oriente, come nella maggior parte del mondo, le comunità tendono a vivere nei
propri ambienti linguistici, culturali e confessionali, e Israele non fa eccezione.
Inoltre gli arabi cristiani in Israele sono una minoranza dentro una minoranza — circa
120.000 su una popolazione araba di quasi un milione e mezzo che per la maggior parte
è musulmana e che rappresenta forse il venti per cento di tutta la popolazione di
Israele (intorno ai sette milioni e mezzo). È vero che gli israeliani arabi cristiani
rappresentano una minoranza religiosa particolarmente affermata sotto molti aspetti.
I loro standard socio-economici ed educativi sono ben al di sopra della media — le
loro scuole registrano i voti migliori agli esami di maturità annuali — molti di loro
sono politici ad alto livello e sono stati in grado di attingere ai molti benefici
del sistema democratico di cui sono parte integrante. Tuttavia la vita quotidiana
della stragrande maggioranza di arabi ed ebrei si svolge in seno ai loro rispettivi
contesti. Di conseguenza la maggior parte degli ebrei israeliani non incontra i cristiani
contemporanei; e perfino quando si recano all'estero tendono a considerarli non-ebrei
come tali, non cristiani moderni. Di conseguenza fino a poco tempo fa la maggior parte
della società israeliana non ha avuto alcun sentore dei profondi cambiamenti nei rapporti
tra cattolici ed ebrei. Tuttavia questa situazione ha iniziato a cambiare significativamente
nell'ultimo decennio per diversi motivi, di cui due particolarmente importanti. Il
primo è rappresentato dall'impatto della visita del compianto Papa Giovanni Paolo
II nell'anno 2000, a seguito dello stabilimento dei rapporti diplomatici bilaterali
tra Israele e la Santa Sede di sei anni prima. Mentre quest'ultimo fatto era già stato
percepito in Israele, è stato il potere delle immagini visive, il cui significato
Papa Giovanni Paolo II comprendeva così bene, che ha rivelato chiaramente alla maggior
parte della società israeliana la trasformazione che si era operata negli atteggiamenti
e negli insegnamenti cristiani riguardo al popolo ebraico con il quale lo stesso Papa
ha mantenuto e ha continuato a promuovere mutua amicizia e rispetto. Per Israele vedere
il Papa al Muro Occidentale, frammento del Secondo Tempio, stare in piedi in segno
di rispetto per la tradizione ebraica e porvi il testo che aveva composto per la giornata
del perdono che aveva avuto luogo due settimane prima qui, a San Pietro, testo in
cui chiedeva il perdono divino per i peccati commessi contro gli ebrei nel corso dei
secoli, è stato straordinario e commovente nel suo effetto. Gli ebrei di Israele hanno
ancora molta strada da fare per superare un passato negativo, ma non c'è dubbio che
da quella storica visita gli atteggiamenti sono cambiati. Essa inoltre ha portato
all'importante nuovo cammino verso il dialogo, la comprensione e la collaborazione
grazie alla commissione bilaterale del Gran Rabbinato di Israele e della commissione
della Santa Sede per i rapporti religiosi con l'ebraismo, istituita per iniziativa
di Giovanni Paolo II e ampiamente lodata da Papa Benedetto XVI nel corso del suo pellegrinaggio
in Terra Santa lo scorso anno, come pure nelle sue parole alla sinagoga di Roma all'inizio
di quest'anno. Un altro fattore importante è l'influsso di altri cristiani che
hanno raddoppiato l'assetto demografico del cristianesimo in Israele. Mi riferisco
innanzitutto ai circa cinquantamila cristiani praticanti che facevano parte del flusso
migratorio dall'ex Unione Sovietica verso Israele negli ultimi due decenni. In quanto
strettamente legati, allo stesso tempo, con la società ebraica a motivo di vincoli
familiari e culturali, si può dire che essi rappresentino la prima minoranza cristiana
che si considera allo stesso tempo parte di una maggioranza ebraica da quando si è
formata la comunità cristiana degli albori. Questi cristiani, come le comunità
arabo cristiane, sono cittadini israeliani che godono del pieno diritto di cittadinanza
e di uguaglianza di fronte alla legge. Tuttavia esiste un terzo importante popolo
cristiano in Israele, la cui permanenza legale è talvolta problematica. Si tratta
delle molte migliaia di cristiani praticanti su circa un quarto di milione di lavoratori
immigrati — dalle Filippine, dall'Europa dell'est, dall'America latina e dall'Africa
sub-sahariana. La maggior parte di loro è ospite del Paese legalmente e provvisoriamente.
Tuttavia circa la metà di loro è entrata o risiede illegalmente, e la loro posizione
è precaria dal punto di vista legale. Tuttavia la sostanziale presenza cristiana
in mezzo a questa popolazione alimenta una vita religiosa piena di vitalità e rappresenta
una significativa terza dimensione della realtà cristiana nell'Israele di oggi. Questi
fattori hanno contribuito, fra gli altri, a una crescente familiarità in Israele con
il cristianesimo odierno. Inoltre, mentre esistono circa duecento organizzazioni israeliane
che promuovono la comprensione e la collaborazione arabo-ebraiche in generale, esistono
anche letteralmente dozzine di organismi che promuovono incontri interreligiosi, dialogo
e studi, e la presenza cristiana al loro interno è esorbitante e assai significativa.
Ciò naturalmente è dovuto in sostanza alla presenza di istituzioni cristiane e ai
loro presbiteri, alunni, rappresentanti internazionali delle chiese e così via, che
contribuiscono, in modo del tutto sproporzionato rispetto al loro numero, a questi
sforzi, soprattutto nel campo dell'istruzione. Inoltre il fatto che nello Stato di
Israele i cristiani, come i musulmani, rappresentino una minoranza che vuol essere
accettata e compresa dalla maggioranza degli ebrei, è servito da stimolo per l'impegno
interreligioso (contrariamente ad altri luoghi, dove spesso accade l'inverso). I
cristiani in Israele si trovano naturalmente in una situazione molto diversa da quella
delle loro comunità sorelle in Terra Santa, che fanno parte di una società palestinese
che lotta per la propria indipendenza e che vengono inevitabilmente coinvolte tutti
i giorni nel conflitto israelo-palestinese. In effetti l'ubicazione di alcune di queste
comunità ai confini tra Israele e la giurisdizione palestinese fa sì che queste spesso
debbano sopportare l'affronto delle misure di sicurezza che lo Stato ebraico si sente
in obbligo di mantenere al fine di proteggere i propri cittadini dalla continua violenza
dall'interno dei territori palestinesi. È giusto e opportuno che questi cristiani
palestinesi esprimano il loro disagio e le loro speranze riguardo alla situazione.
Tuttavia è rilevante e deplorevole che tali espressioni non siano sempre conformi
con la lettera e lo spirito del magistero riguardo ai rapporti con gli ebrei e l'ebraismo.
Ciò sembra riflettersi in un contesto geografico più ampio, dove l'impatto del conflitto
arabo-israeliano ha rappresentato troppo spesso un disagio per molti cristiani nei
confronti della riscoperta da parte della Chiesa delle proprie radici ebraiche e talvolta
una preferenza per il pregiudizio storico. Tuttavia la difficile situazione dei
palestinesi in generale, e dei cristiani palestinesi in particolare, dovrebbe preoccupare
profondamente gli ebrei sia in Israele che nella diaspora. Per incominciare, proprio
l'ebraismo ha mostrato al mondo che ogni persona umana è creata a immagine divina;
e che di conseguenza, come insegnano i saggi del Talmud, ogni atto irrispettoso nei
confronti di un'altra persona è un atto irrispettoso nei confronti del Creatore stesso.
Noi abbiamo una responsabilità particolare nei confronti del prossimo che soffre.
E tale responsabilità è ancora più grande quando la sofferenza scaturisce da un conflitto
cui partecipiamo e in cui, paradossalmente, abbiamo precisamente il dovere morale
e religioso di proteggere e difendere noi stessi. Per me personalmente, in quanto
israeliano di Gerusalemme, la penosa situazione in Terra Santa e la sofferenza di
tante persone da entrambe le parti dello spartiacque politico è causa di grande dolore,
anche se mi rendo perfettamente conto del fatto che essa viene usata e abusata per
fomentare tensioni che vanno ben oltre il contesto geografico del conflitto stesso.
Ringrazio Dio per il gran numero di organizzazioni che nella nostra società operano
per alleviare quanta più sofferenza possibile in questo difficilissimo contesto. Sono
orgoglioso di essere il fondatore di una di queste organizzazioni, Rabbis for Human
Rights (Rabbini per i diritti umani), il cui direttore e i cui membri, proprio in
veste di leali cittadini israeliani, continuano a lottare per difendere e promuovere
la dignità umana di tutte le persone e in particolare delle più vulnerabili. Naturalmente,
sono consapevole delle stragi sulle strade delle nostre città, nel passato recente,
e delle persistenti minacce che, nel presente, vengono da coloro che sono apertamente
impegnati nella distruzione e nello sterminio di Israele. Tuttavia, dobbiamo sforzarci
di fare tutto il possibile per alleviare la durezza delle condizioni, specialmente
per coloro che appartengono alle comunità cristiane di Gerusalemme e dintorni. Di
fatto, negli ultimi mesi le condizioni sono notevolmente migliorate, per esempio per
quel che riguarda la libera circolazione del clero; inoltre, recentemente, sembrano
esserci segnali di una crescente comprensione dei bisogni delle comunità cristiane
locali da parte delle autorità, malgrado le sfide poste dalla sicurezza. Noi siamo
a favore di tutto ciò, nella convinzione che sia assolutamente nell'interesse di tutti.
Dunque, la responsabilità ebraica di garantire la fioritura di comunità cristiane
in mezzo a noi, in considerazione del fatto che la Terra Santa è la terra in cui nacque
il cristianesimo e dove si trovano i luoghi sacri, viene rafforzata dalla nostra rinnovata
e crescente fraternità. Tuttavia, anche andando oltre il nostro particolare rapporto,
i cristiani presenti come minoranza in ambiente ebraico o musulmano svolgono un ruolo
molto speciale nel contesto delle nostre società. La situazione delle minoranze si
riflette sempre profondamente sulle condizioni sociali e morali di una società nel
suo insieme. Il benessere delle comunità cristiane in Medio Oriente non è altro che
una specie di barometro delle condizioni morali dei nostri Paesi. Il grado dei diritti
civili e religiosi o delle libertà di cui godono i cristiani testimonia lo stato di
salute o di malattia delle rispettive società mediorientali. Inoltre, come ho già
detto, i cristiani svolgono un ruolo assai importante nella promozione del dialogo
e della collaborazione interreligiosi nel Paese. Dunque, vorrei suggerire che proprio
questa è la funzione dei cristiani, ovvero contribuire al superamento del pregiudizio
e del malinteso che affliggono la Terra Santa e che, naturalmente, sono sostenuti
nel resto della regione. Sebbene non sia giusto aspettarsi che le piccole comunità
cristiane locali siano in grado di sopportare da sole tale responsabilità, forse possiamo
sperare che, se sostenute in questo dalla loro Chiesa universale e dall'autorità centrale,
possano fungere da salutari operatori di pace nella città il cui nome significa pace
e che tale significato ha mantenuto per le nostre comunità. La gerarchia cattolica
locale ha già dato un segno di ciò istituendo in anni recenti il Consiglio delle istituzioni
religiose in Terra Santa, che riunisce il Gran Rabbinato di Israele, i tribunali della
Sharia e il ministero degli Affari Religiosi dell'Autorità Palestinese, nonché i leader
cristiani ufficiali in Terra Santa. Tale Consiglio non solo facilita la comunicazione
fra le diverse autorità religiose, ma è anche impegnato nella lotta ai malintesi,
al fanatismo e all'istigazione, cercando di essere un punto di forza per la riconciliazione
e la pace, in modo che due nazioni e tre religioni possano convivere nella stessa
terra con dignità, libertà e tranquillità assolute. L'Instrumentum laboris di
questo Sinodo speciale per il Medio Oriente cita Papa Benedetto XVI nella sua conferenza
stampa pubblicata su «L'Osservatore Romano», mentre si recava in Terra Santa. Dice:
«è importante, da una parte avere i dialoghi bilaterali — con gli ebrei e con l'Islam
— e poi anche il dialogo trilaterale» (96). Proprio quest'anno, per la prima volta
il Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso e la Pontificia Commissione
per i Rapporti religiosi con l'Ebraismo hanno ospitato, insieme all'International
Jewish Committee for Interreligious Consultations (Ijcic) e la fondazione «Le tre
culture», a Siviglia, in Spagna, il nostro primo dialogo trilaterale. È stata per
me una gioia particolare, poiché la proposta di ciò venne avanzata quando ero presidente
del Ijcic e spero vivamente che sia solo l'inizio di un dialogo trilaterale più esteso,
che possa vincere il sospetto, il pregiudizio e i malintesi, in modo che possiamo
mettere in luce i valori condivisi dalla famiglia di Abramo per il bene di tutta l'umanità.
Mi sembra che la suddetta commissione bilaterale con il Rabbinato di Israele e il
consiglio delle istituzioni religiose in Terra Santa costituisca in questo senso un'opportunità
e una sfida ancor più grandi. L'Instrumentum laboris ci permette di comprendere
meglio la natura dei rapporti dei cristiani sia con gli ebrei sia con i musulmani.
Cita infatti le parole di Papa Benedetto XVI a Colonia, nell'agosto del 2005, quando
descrisse le relazioni con l'islam: «... una necessità vitale, da cui dipende in gran
parte il nostro futuro» (95). In Medio Oriente ciò si può toccare con mano. A seconda
che il concetto di dar el Islam sia inteso soltanto in un contesto geografico/culturale
o piuttosto teologico, la domanda fondamentale per il futuro delle nostre comunità
è se i fratelli musulmani saranno capaci di considerare la presenza dei cristiani
e degli ebrei come parte integrante e pienamente legittimata della regione nel suo
insieme. La necessità di affrontare questo problema è veramente «una necessità vitale...
da cui... dipende il nostro futuro». Ciò si ricollega precisamente alla questione
che è alla radice del conflitto arabo-israeliano. Coloro che rivendicano l'«occupazione»
come «causa originaria» del conflitto non sono sinceri, nel migliore dei casi. Questo
conflitto è in atto da decenni, da molto prima della guerra dei Sei Giorni del 1967,
il cui esito portò Gaza e Cisgiordania sotto il controllo israeliano. L'«occupazione»
è infatti una conseguenza del conflitto, la cui «causa originaria» è in realtà se
il mondo arabo possa o meno tollerare un sistema di governo sovrano non arabo al suo
interno. Tuttavia l'Instrumentum laboris nel commento alla Dei Verbum descrive il
dialogo della Chiesa «con i suoi fratelli maggiori» non solo necessario, ma «essenziale»
(87). Proprio durante la visita alla grande sinagoga di questa città, quest'anno Papa
Benedetto XVI ha citato il Catechismo della Chiesa cattolica (839): «È scrutando il
suo stesso mistero che la Chiesa, Popolo di Dio della Nuova Alleanza, scopre il proprio
profondo legame con gli Ebrei, scelti dal Signore primi fra tutti ad accogliere la
sua parola»; aggiunge in seguito: «la fede ebraica è già risposta alla rivelazione
di Dio». Queste parole fanno eco a quelle del suo predecessore, Giovanni Paolo II,
che nella sua storica visita allo stesso luogo di adorazione degli ebrei, in questa
città nel 1986, dichiarò che la «religione ebraica non è estrinseca, ma in certo qual
modo è intrinseca alla nostra religione. Con l'Ebraismo dunque abbiamo un rapporto
che non abbiamo con nessun'altra religione». Inoltre, nell'esortazione apostolica
del 28 giugno 2003, il Pontefice descrisse «il dialogo con l'ebraismo» come «di fondamentale
importanza per l'autocoscienza cristiana», in linea con l'appello del Sinodo a «riconoscere
le comuni radici che intercorrono tra il cristianesimo e il popolo ebraico, chiamato
da Dio a un'alleanza che rimane irrevocabile». Come ho detto, le realtà politiche
in Medio Oriente non sempre facilitano il riconoscere, da parte dei cristiani, e ancor
meno a far proprie, queste esortazioni. Tuttavia, prego che il miracolo di ciò, a
cui Giovanni Paolo II si è riferito come «la fioritura di una nuova primavera nei
reciproci rapporti», diventi sempre più evidente in Medio Oriente e nel mondo intero.
A questo scopo, dedichiamoci sempre più devotamente, attraverso la preghiera e le
opere, alla pace e alla dignità per tutti. Preghiamo con le parole di Papa Giovanni
Paolo II presso il Muro Occidentale di Gerusalemme, con cui il Pontefice Benedetto
XVI ha concluso la presentazione nella grande sinagoga di Roma: «Manda la tua pace
in Terra Santa, nel Medio Oriente, in tutta la famiglia umana; muovi i cuori di quanti
invocano il tuo nome, perché percorrano umilmente il cammino della giustizia e della
compassione». Permettetemi, come colui che viene a voi dalla città santa e prediletta
da noi tutti, di concludere con le parole del salmista: «Ti benedica il Signore da
Sion. Possa tu vedere il bene di Gerusalemme tutti i giorni della tua vita!» (Salmo
128, 5).