Concerto a Lampedusa per riflettere sul tema dell'immigrazione: intervista con Claudio
Baglioni
Cinque giorni di musica, oltre cento artisti sul palco, due obiettivi: riflettere
sul tema dell’immigrazione e favorire l’integrazione tra le diverse culture. Con questi
numeri si apre domani sera, sull’isola di Lampedusa, la rassegna musicale di O’ Scia’.
Giunta all’ottava edizione, la kermesse proseguirà fino al 2 ottobre e vedrà le esibizioni,
tra gli altri, di Francesco De Gregori, Roberto Vecchioni, Carmen Consoli ed Irene
Grandi. Isabella Piro ne ha parlato con l’ideatore dell’iniziativa, il cantautore
Claudio Baglioni:
(musica)
R.
- Quello che con questa manifestazione abbiamo cercato e cerchiamo ogni giorno di
dire non è una presa di posizione a favore o a sfavore di un pensiero o di un atteggiamento
politico o sociale, quanto quello della ricerca seria delle soluzioni, che è una ricerca
lunga e problematica: senza però abbandonarci a semplici slogan, che spesso non risolvono
la risoluzione, ma fanno tacere solamente alcuni spiriti più bollenti.
D.
- Siamo giunti all’ottava edizione di O’ Scia’: la questione immigrazione ha cambiato
volto nel frattempo?
R. - No, perché l’immigrazione è lunga quanto la
vita dell’umanità, è vecchia di secoli e c’è sempre stata e sempre ci sarà. È un diritto
ed anche un dovere quello di cercare una condizione migliore. A mio parere, però,
il problema sta a monte. Se noi riuscissimo veramente a lavorare affinché questi viaggi
così terribili e così difficili - perché noi non abbiamo neanche la più pallida idea
di quello che può accadere a qualcuno che parte dal Centro Africa per arrivare fino
al Mediterraneo, per trovare poi chissà quale razza di lavoro, per essere sfruttato
con il lavoro nero e dalla criminalità organizzata - se noi riuscissimo a fare un
passo indietro e a guardare oltre i nostri bisogni, già messi in crisi tra l’altro
da un mercato generale e mondiale, probabilmente riusciremmo a trovare l’idea che
una maggiore serenità e un pizzico di serenità la si può conquistare solo attraverso
qualcun altro, solo attraverso il rispetto della persona.
D. - Immigrazione,
integrazione, dialogo: qual è il denominatore comune per accordare questi tre concetti?
R.
- A mio parere è proprio l’interazione. Non si raggiunge niente, se non si lavora
insieme. Questo lo dico anche come musicista: nel momento in cui uno non vuole più
suonare da solo, deve accordarsi con qualcun altro per suonare la stessa sinfonia,
la stessa canzone, lo stesso ritmo. L’interazione e il lavoro comune è fondamentale!
Secondo me, poi, è necessaria una maturità per affrontare questi discorsi che non
hanno un colore politico, ma che parlano della differenza di possibilità della vita,
di costumi differenti, di culture che sono lontane e che - proprio in un tempo in
cui parliamo di tempo globale e universale - si fa più fatica a mettere insieme.
D.
- C’è un problema di formazione dei giovani all’integrazione?
R. - Sì.
È un problema di formazione, proprio perché l’integrazione sarebbe naturale. Noi vediamo
che bambini di pochi anni hanno naturalmente l’idea di stare insieme, anche ad altri
bambini che vedono diversi per colore, per fattezze, per modi di vestire, per la lingua.
Evidentemente poi cominciano alcune sovrastrutture nell’educazione e nella cultura
imperante ed aumentano, magari, le paure e le diffidenze. I problemi continuano ad
esistere ed affinché ci sia anche una maggiore legalità e una maggiore riconoscibilità,
vanno affrontati con sapienza e con lungimiranza.
D. - Chi emigra cerca
la speranza di una vita migliore: la musica in questo caso è sinonimo di speranza?
R.
- La musica ha in sé quei concetti di armonia e di bellezza addirittura primitiva.
In questo senso regala sempre calore, confidenza, sorriso, emozione ed alimenta buoni
pensieri e quel concetto per cui è necessario darsi da fare affinché alcune cose possano
andare meglio.