Pellegrinaggio di giovani in Turchia alla sequela di don Andrea Santoro
Sulle tracce di don Andrea Santoro per mantenere aperta quella finestra per il Medio
Oriente da lui schiusa dalla diocesi di Roma. Le hanno percorse nello scorso mese
di agosto alcuni ragazzi della parrocchia dei Santi Fabiano e Venanzio con l’Associazione
“Finestra per il Medio Oriente”. È stato il primo pellegrinaggio in Turchia organizzato
dall’Associazione fondata dallo stesso sacerdote, ucciso a Trebisonda il 5 febbraio
del 2006. Tiziana Campisi ha chiesto alla presidente di “Finestra per il Mondo”,
Giulia Pezone, com’è nata l’idea di proporre ai giovani questa esperienza estiva:
R. – Nel
nostro gruppo giovanile, c’era l’idea di far vivere ai ragazzi un’esperienza forte,
un’esperienza di fede alta, e abbiamo pensato proprio alla Turchia, perché è stata
la terra calpestata dai piedi degli Apostoli, e che ha visto per la prima volta la
comunità cristiana chiamata così: ad Antiochia, i cristiani per la prima volta sono
stati chiamati in questo modo. Quindi, l’idea era di vedere queste terre, questi luoghi
che hanno un significato profondo per la cristianità, nello stesso tempo per la comunità
della parrocchia dei Santi Fabiano e Venanzio è il luogo in cui è stato ucciso don
Andrea Santoro. Abbiamo fatto quindi un cammino di preparazione con i ragazzi lungo
un anno per affrontare il viaggio. Siamo stati sei giorni a Trabzon e ci siamo poi
spostati a Istanbul. Un incontro importantissimo che i ragazzi hanno potuto avere
è stato quello con il Patriarca ortodosso ecumenico, Bartolomeo I. Voleva essere un
modo per far vivere anche ai ragazzi questo splendido cammino che si sta compiendo
verso l’unità. Il Patriarca ha rivolto ai ragazzi parole molto belle: li ha incoraggiati
a vivere alto.
D. – Che cosa è rimasto nel cuore dei ragazzi che hanno
preso parte al pellegrinaggio?
R. – E’ stato un impatto forte vivere
in un Paese diverso, in un Paese islamico. Noi abbiamo tenuto a far vivere ai ragazzi
un pellegrinaggio che avesse un po’ lo stile della “Finestra per il Medio Oriente”,
che è l’Associazione fondata da don Andrea: quindi il venerdì, ad esempio, si è scelto
di proposito di partecipare in qualche modo alla preghiera più importante per gli
islamici. Con molto rispetto, quel giorno ci siamo fermati con loro, abbiamo aspettato
che terminassero la preghiera senza continuare a visitare i monumenti come turisti.
Ma i ragazzi hanno potuto sperimentare anche la Chiesa-minoranza, e quindi le difficoltà
delle comunità, persone che affrontano anche molte ore di cammino, a volte anche a
piedi, per raggiungere l’unica chiesa, lontana chilometri e chilometri... Di certo,
loro si sono sentiti interrogati da queste testimonianze: per noi, che abbiamo un’abbondanza
di possibilità di celebrazioni, di sacerdoti, di chiese un’esperienza del genere è
qualcosa che rimette in gioco molto. Si torna qui, in Occidente, pungolati: si sente
che la tanta grazia che abbiamo a disposizione e che a volte tendiamo a giudicare,
a sottovalutare, in realtà non possiamo permetterci di non averne cura. Torniamo con
più voglia di darci da fare per le nostre chiese.
D. – In quale maniera
i giovani romani rispondono alle iniziative di “Finestra per il Medio Oriente”?
R.
– Dopo la morte di don Andrea Santoro e l’uccisione di mons. Luigi Padovese, vescovo
di Iskenderun, nell’Anatolia, c’è sicuramente un forte coinvolgimento emotivo. Penso
però sia necessaria una crescita nella fede: posso parlare, appunto, dei ragazzi che
sono venuti con noi in Turchia quest’estate. Molti di loro sono stati battezzati o
sono stati seguiti nel percorso di preparazione alla Prima Comunione da don Andreastesso.
Si viene messi in discussione in maniera forte, dal punto di vista della fede. Fra
l’altro, la Turchia, come molti luoghi del Medio Oriente, non permette una presenza
di ospedali, scuole, gestiti da istituzioni cattoliche – ce ne sono pochi insomma,
è una situazione particolare – non si può intervenire o essere presenti nella modalità
in cui noi tradizionalmente pensiamo la presenza delle Chiese nelle terre di missione.
E quindi, viene chiesto di andare alla radice, al cuore della fede di ciascuno. Si
deve arrivare ad una testimonianza di fede che passi essenzialmente attraverso una
presenza spesso muta: una presenza che può passare soprattutto attraverso il comportamento.
Si va al cuore. E allora, il non poter fare ma il dovere essere sicuramente porta
a una crescita e a una maturazione nella fede.