Il vescovo di Locri agli uomini della 'ndrangheta: non profanate la Croce di Polsi
“Non profanate la Croce di Polsi aderendo ad associazioni che hanno alla loro base
solo il crimine o il malaffare”. E’ l’appello del vescovo di Locri, mons. Giuseppe
Fiorini Morosini, lanciato nel corso della sua omelia per la Festa della Croce, che
si è celebrata ieri in occasione della festa della Madonna della Montagna nel Santuario
di Polsi, nella Locride, in Calabria. La ricorrenza coinvolge anche affiliati della
‘ndrangheta, che proprio in quei luoghi lo scorso anno tennero un summit per definire
i vertici dell’organizzazione. In merito Federico Piana ha raccolto la riflessione
dello stesso mons. Fiorini Morosini:
R. - Il nostro
problema grave qui in Calabria e anche nella Locride è quello di affrontare la rottura
tra la fede e la vita. Sapere che diamo tanti Sacramenti senza poi un risvolto concreto
nella vita, sapere che tante devozioni e tanti segni religiosi seguiti da una folla
straordinaria, poi, non hanno una ripercussione nelle scelte di vita di ogni giorno,
questo è il problema gravissimo che come chiesa diocesana noi stiamo cercando di affrontare.
D.
- Come mai, secondo lei, la ’ndrangheta vive questo strano rapporto con la fede?
R.
- Il problema sono le convinzioni che soggettivamente hanno le persone. Quando si
ha a che fare con le convinzioni delle persone è chiaro che un discorso di recupero
diventa estremamente difficile. Io, tante volte, parlando con i sacerdoti della diocesi
ripeto che è più facile fare la prima evangelizzazione, piuttosto che recuperare al
Vangelo forme, ormai, solo esteriormente religiose, perché tante volte c’è la convinzione
tenace, forte, che loro sono dalla parte del giusto e questo costituisce un gravissimo
problema pastorale per noi.
D. - Lei ha fatto un appello alla conversione
... cosa si può sperare?
R. - La speranza c’è in tutti, il Signore può
fare anche miracoli, però se ragioniamo nei termini umani di cammino, di recupero,
il cammino è possibile ma sarà lunghissimo, troppo lungo, perché qui si tratta di
cambiare modi di pensare la vita, modi di gestire il senso delle scelte di vita, ancora
prima delle scelte religiose. E’ il prototipo di uomo che sta davanti agli occhi che
bisogna cambiare e per far questo ci vogliono generazioni.
D. - Lei
recentemente ha detto: i calabresi devono trovare la forza di denunciare, cosa che
tante volte non avviene, per paura… Perché, secondo lei, non si ha il coraggio di
denunciare?
R. - Bisogna dire che le istituzioni devono stare accanto
alle persone che denunciano e spesso questo non avviene. Abbiamo dei magistrati che
stanno parlando con estrema chiarezza: la sicurezza della pena, la gravità e la severità
della pena che manca. Perché, chi se la sente di denunciare uno e poi vederlo fuori
dopo alcuni anni? Non possiamo pretendere l’eroismo dalla gente. Se, invece, la denuncia
di un’estorsione comporta, come dice qualche magistrato, una pena certa e alta, allora,
io mi sento più incoraggiato a denunciare. E’ un discorso difficile, che lo Stato
dovrebbe esaminare e prendere in considerazione, altrimenti non possiamo dire alla
gente di denunciare, sapendo di esporla a ritorsioni.